Il Comitato anti-tortura del Consiglio d’Europa pubblica il suo rapporto sull’Italia

Strasburgo, 21 aprile 2010 – Il 20 aprile 2010 il Comitato del Consiglio d’Europa per la prevenzione della tortura e dei trattamenti inumani o degradanti (CPT) ha pubblicato il rapporto relativo alla sua quinta visita periodica in Italia, effettuata dal 14 al 26 settembre 2008, unitamente alla risposta del Governo italiano. Tali documenti sono stati resi pubblici su richiesta delle autorità italiane.

Per quanto riguarda il trattamento delle persone private di libertà da parte delle forze dell’ordine, il rapporto riferisce che la delegazione del CPT ha ricevuto un certo numero di denunce di presunti maltrattamenti fisici e/o di uso eccessivo della forza da parte di agenti della polizia e dei Carabinieri, e, in minor misura, da parte di agenti della Guardia di Finanza, soprattutto nel bresciano. I presunti maltrattamenti consistevano essenzialmente in pugni, calci o manganellate al momento dell’arresto, e, in alcuni casi, nel corso della permanenza in un centro di detenzione. Per certi casi, la delegazione ha potuto riscontrare l’esistenza di certificati medici attestanti i fatti denunciati. Il rapporto verifica il rispetto delle garanzie procedurali contro i maltrattamenti e constata la necessità di una azione più incisiva in questo campo, per rendere conformi la legge e la pratica alle norme stabilite dal CPT. Nella loro risposta, le autorità italiane hanno indicato che sono state emanate delle direttive specifiche per prevenire e punire il comportamento indebitamente aggressivo delle forze dell’ordine. Inoltre, le autorità hanno fornito le informazioni richieste sui punti sollevati dal CPT in materia di garanzie procedurali contro i maltrattamenti.

Sono state esaminate le condizioni di detenzione presso il Centro di identificazione e di espulsione (CEI) di Via Corelli a Milano. Il CPT ha raccomandato, tra l’altro, che siano garantiti agli immigrati irregolari che vi devono essere trattenuti maggiori e più ampie possibilità di attività.

Per quanto riguarda le carceri, la delegazione che ha effettuato la visita a nome del Comitato ha posto l’accento sul sovraffollamento delle prigioni, sulla questione delle cure mediche in ambiente carcerario (la cui responsabilità è stata ora trasferita alle regioni) e sul trattamento dei detenuti sottoposti al regime di massima sicurezza (il “41-bis”). Il CPT ha espresso viva preoccupazione per il livello di violenza registrato all’interno delle carceri di Brescia-Mombello e di Cagliari-Buoncammino, dove episodi di violenza tra detenuti nel corso del 2008 hanno causato lesioni gravi e, in un caso, la morte di un carcerato. Inoltre, il Comitato ha ricevuto a Cagliari alcune accuse relative al fatto che il personale carcerario non sarebbe sempre intervenuto tempestivamente per sedare le risse tra detenuti.

Le autorità italiane hanno indicato nella loro risposta che la direzione generale delle carceri ha invitato le prigioni di Brescia e di Cagliari a prendere tutte le misure necessarie per impedire la violenza tra detenuti. Hanno inoltre affermato che dall’autunno del 2008, si è ottenuta una diminuzione degli episodi di violenza, a seguito di una convenzione conclusa tra il carcere di Cagliari e la Caritas (organizzazione cattolica di assistenza, sviluppo di politiche e di servizi sociali).

Per quanto riguarda l’ospedale psichiatrico giudiziario Filippo Saporito (OPG) di Aversa, il rapporto pone in evidenza le scadenti condizioni della struttura e la necessità di migliorare il regime quotidiano di degenza dei pazienti, aumentando il numero e la varietà delle attività trattamentali quotidiane loro garantite. La delegazione ha inoltre riscontrato che alcuni pazienti erano stati trattenuti nell’OPG più a lungo di quanto non lo richiedessero le loro condizioni e che altri erano trattenuti nell’ospedale anche oltre lo scadere del termine previsto dall’ordine di internamento. Le autorità italiane hanno fatto valere nella loro risposta che l’ospedale è in corso di ristrutturazione e che la legge non prevede un limite per l’esecuzione di misure di sicurezza temporanee non detentive.

In merito al Servizio psichiatrico di diagnosi e cura (SPDC) presso l’Ospedale San Giovanni Bosco di Napoli, la delegazione ha concentrato l’attenzione sul ricorso al trattamento obbligatorio dei pazienti. Il Comitato raccomanda di apportare miglioramenti alla fase giudiziaria della procedura relativa al trattamento sanitario obbligatorio.

Nel caso SULEJMANOVIC c. Italia la CEDU accerta per la prima volta la violazione dell’articolo 3 della Convenzione per eccessivo sovraffollamento carcerario

Strasburgo, 7 agosto 2009 – Con sentenza del 16 luglio 2009, la CEDU, nel caso SULEJMANOVIC c. Italia (ricorso n. 22635/03), dove il ricorrente si lamenta delle condizioni della propria detenzione nel carcere di Rebibbia a Roma, ha accertato la violazione dell’art. 3 della Convenzione per sovraffollamento carcerario.

Questo è il primo caso di accertamento di una simile violazione nei confronti dell’Italia. Il caso è emblematico e di grande attualità in considerazione della grave situazione di sovraffollamento attualmente esistente nelle carceri italiane.

La vicenda riguarda un cittadino bosniaco, Izet Sulejmanovic, condannato per furto, ricettazione e falso, il quale viene arrestato il 30 novembre 2002 mentre si trova a Roma per ottenere un permesso di soggiorno. Il Sulejmanovic deve scontare nel complesso un anno, nove mesi e cinque giorni di reclusione e pertanto viene condotto nel carcere di Rebibbia a Roma.

Nel luglio 2003, questo carcere ospitava 1.560 persone nonostante la sua capacità di accoglienza fosse limitata a 1.271 persone.

Il Sulejmanovic viene recluso in diverse celle, tutte di 16,20 m2 a cui è collegato un locale sanitario di 5,04 m2. Il Sulejmanovic dall’inizio della sua detenzione fino al 15 aprile 2003 condivide la cella con altre cinque persone. Pertanto ogni detenuto dispone di una superficie media di 2,70 m2.

Dal 15 aprile al 20 ottobre 2003, il Sulejmanovic viene trasferito in un’altra cella, condivisa con altre quattro persone. Pertanto ogni detenuto dispone di una superficie media di 3,40 m2.

Durante il suo periodo di detenzione il Sulejmanovic trascorre le giornate nel modo seguente: alle 18 chiusura della cella; alle 6,30 distribuzione della prima colazione, consumata, come tutti gli altri pasti, in cella, non esistendo alcun locale di ristorazione; alle 8,30 apertura della cella con la possibilità di uscire nel cortile del penitenziario; alle 10 distribuzione del pranzo, alle 10,30 chiusura della cella; alle 13 apertura della cella con la possibilità di uscire nel cortile del penitenziario; alle 14,30 chiusura della cella; alle 16 apertura della cella con la possibilità di circolare nei corridoi; alle 17,30 distribuzione della cena. Ne risulta quindi che il Sulejmanovic rimane rinchiuso in cella quotidianamente per diciotto ore e trenta minuti a cui si deve aggiungere un’ora per i pasti. Il Sulejmanovic può quindi uscire di cella 4 ore e 30 minuti al giorno.

Il Sulejmanovic chiede inoltre per due volte di poter lavorare durante il suo periodo di detenzione, ma invano. Il 20 ottobre 2003, il Sulejmanovic, dopo aver beneficiato di uno sconto di pena, viene rimesso in libertà. Queste le condizioni descritte dal Sulejmanovic e riportate dalla CEDU nella sentenza.

Riguardo alle caratteristiche dei locali in cui i detenuti devono soggiornare disposte in diritto interno la CEDU richiama l’articolo 6 della legge n. 354 del 26 luglio 1975 nonché gli articoli 6 e 7 del decreto presidenziale n. 230 del 30 giugno 2000. Per quanto riguarda il piano internazionale, la CEDU fa espresso riferimento all’articolo 18 delle Norme penitenziarie europee, adottate con raccomandazione Rec(2006)2 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa (versione francese e versione inglese e versione italiana).

I principi generali richiamati dalla CEDU nel caso in esame permettono di ripercorrere la giurisprudenza sviluppatasi in materia.

La CEDU, facendo riferimento alle sentenze di Grande Camera nei casi Saadi c. Italia, sentenza del 28 febbraio 2008 (§127) e Labita c. Italia, sentenza del 6 aprile 2000 (§119), ricorda innanzitutto che l’art. 3 della Convenzione consacra uno dei valori fondamentali delle società democratiche in quanto proibisce in termini assoluti la tortura e le pene o i trattamenti inumani o degradanti, quali che siano i comportamenti della vittima.

La CEDU ricorda inoltre che l’articolo 3 della Convenzione impone allo Stato di assicurare che tutti i prigionieri siano detenuti in condizioni compatibili con il rispetto della dignità umana, che le modalità di esecuzione del provvedimento non provochino all’interessato uno sconforto e un malessere di intensità tale da eccedere l’inevitabile livello di sofferenza legato alla detenzione e che, tenuto conto delle necessità pratiche della reclusione, la salute e il benessere del detenuto siano assicurati in modo adeguato (Kudla c. Polonia, sentenza di Grande Camera del 26 ottobre 2000, §§ 92-94).

La CEDU ricorda anche che il CPT, il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e dei trattamenti o delle pene inumani o degradanti del Consiglio d’Europa, ha fissato a 7 m2 per persona la superficie minima suggerita per una cella di detenzione (si veda in merito il secondo rapporto generale, CPT/Inf(92)3, §43) e che un sovraffollamento carcerale grave pone di per sé un problema sotto il profilo dell’articolo 3 della Convenzione (si veda in merito la sentenza Kalachnikov c Russia, sentenza del 15 luglio 2002, § 97).

La CEDU ricorda anche che non può dare la misura, in modo preciso e definitivo, dello spazio personale che deve essere attribuito a ciascun detenuto secondo la Convenzione, dato che questa questione può dipendere da numerosi fattori, come la durata della privazione di libertà, le possibilità di accesso alla passeggiata all’aria aperta o la condizione mentale e fisica del detenuto (si veda in Trepachkine c. Russia, sentenza del 19 luglio 2007, §92).

La CEDU ricorda inoltre che in certi casi la mancanza di spazio personale per i detenuti era talmente evidente da giustificare, di per sé, la constatazione della violazione dell’articolo 3. In questi casi, in linea di principio, i ricorrenti disponevano individualmente di meno di 3 m2 (si vedano i casi, tutti contro la Russia, Aleksandr Makarov c. Russia, n. 15217/07, § 93, 12 marzo 2009 ; Lind c. Russia, n. 25664/05, § 59, 6 dicembre 2007 ; Kantyrev c. Russia, n. 37213/02, §§ 50-51, 21 juin 2007 ; Andreï Frolov c. Russie, n. 205/02, §§ 47-49, 29 mars 2007 ; Labzov c. Russie, n.  62208/00, § 44, 16 giugno 2005, e Mayzit c. Russie, n. 63378/00, § 40, 20 gennaio 2005).

La CEDU ricorda infine che nei casi dove il sovraffollamento non solleva automaticamente l’eccezione di violazione dell’articolo 3, al fine di verificare il rispetto di questa disposizione, possono essere presi in considerazione altri aspetti riguardanti le condizioni di detenzione. Tra questi elementi figurano la possibilità di utilizzare i servizi igienici privatamente, l’areazione disponibile, l’accesso alla luce naturale e all’aria aperta, la qualità del riscaldamento e il rispetto delle esigenze sanitarie di base. Inoltre la CEDU ricorda che anche in casi dove ciascun detenuto disponeva dai 3 ai 4 m2, ha accertato la violazione dell’articolo 3 quando la mancanza di spazio era accompagnata da una mancanza di ventilazione e di luce (si vedano i casi Moisseiev c. Russia, n. 62936/00, 9 ottobre 2008 ; Vlassov c. Russia, n. 78146/01, § 84, 12 giugno 2008 ; Babouchkine c. Russia, n. 67253/01, § 44, 18 ottobre 2007 ; Trepachkine, già citato, e Peers c. Grecia, n. 28524/95, sentenza del 19 aprile 2001, §§ 70-72).

La CEDU passa quindi all’applicazione dei principi generali richiamati al caso di specie.

Per quanto riguarda il periodo intercorrente dal 30 novembre 2002 all’aprile 2003, dove il ricorrente è stato detenuto in uno spazio disponibile pari a 2,70 m2, la CEDU afferma che la mancanza palese di uno spazio personale costituisce di per sé un trattamento inumano o degradante. Pertanto, secondo la CEDU per tale periodo vi è stata violazione dell’articolo 3 della Convenzione.

Per quanto riguarda invece il periodo successivo,dove il ricorrente ha potuto disporre di uno spazio personale di 3,24 m2,  4,05 m2 e 5,40 m2, la CEDU riconosce un miglioramento della situazione. La CEDU verifica con attenzione la situazione del ricorrente, riscontrando che questi non si è lamentato del riscaldamento della cella o dell’accesso e della qualità del bagno annesso alla cella e che nonostante abbia denunciato di aver subito un pregiudizio alla propria integrità fisica e psichica, non ha poi fornito alcun elemento utile a dimostrazione. Riguardo poi alla possibilità di uscire dalla cella, la CEDU constata che il ricorrente aveva a disposizione quasi 9 ore, tra la possibilità di recarsi nel cortile, o all’interno, con la possibilità di socializzare con gli altri detenuti. La CEDU afferma inoltre che è deplorevole che il ricorrente non abbia potuto svolgere alcuna attività lavorativa all’interno del carcere, ma che questa condizione, di per sé, non è sufficiente per ritenerla contraria all’articolo 3 della Convenzione. La CEDU ha pertanto ritenuto che per questo secondo periodo il trattamento a cui è stato sottoposto il ricorrente non abbia raggiunto quel livello minimo di gravità richiesto perché il caso possa essere considerato in violazione dell’art. 3 della Convenzione.

La CEDU ha condannato l’Italia a risarcire al ricorrente la somma di 1.000 euro per danni morali.