Nel caso Torreggiani e altri c. Italia, la C.E.D.U. condanna l’Italia per il sovraffollamento carcerario: violato l’articolo 3 della Convenzione

Strasburgo, 9 gennaio 2013 – Con sentenza dell’8 gennaio 2013, la C.E.D.U ha deciso nel caso Torreggiani e altri c. Italia, intervenendo nuovamente in materia di sovraffollamento carcerario. Con questa sentenza-pilota emessa ai sensi dell’articolo 46 della Convenzione,  la C.E.DU. ha affermato che l’eccessivo affollamento degli istituti di pena italiani rappresenta un problema strutturale del nostro Paese. Secondo la C.E.D.U. vi è stata violazione dell’articolo 3 della Convenzione e sono necessari interventi radicali e tempestivi.

La vicenda trae origine dal ricorso presentato da sette ricorrenti, detenuti nelle carceri di Busto Arsizio e Varese, i quali avevano lamentato di essere reclusi in celle di ridotte dimensioni  e scarsamente illuminate.

Le celle, infatti, misurano ciascuna 9 me vengono generalmente condivise da tre detenuti, con uno spazio personale di 3 m2 per ciascuno di essi. La struttura carceraria di Piacenza, inoltre, risultava al tempo del radicamento del ricorso innanzi alla Corte di Strasburgo, essere priva di acqua calda, e le celle risultavano altresì essere poco illuminate per le sbarre alle finestre.

I fatti lamentati dai ricorrenti erano, peraltro, già stati accertati nel 2010 dal Tribunale di Sorveglianza di Reggio Emilia che, nell’accogliere il ricorso presentato da uno dei detenuti contro le condizioni cui era sottoposto nel carcere di Piacenza, aveva potuto verificare il sovraffollamento, in quanto i detenuti del carcere di Piacenza occupavano in due/tre  le celle costruite invece per una sola persona.

Lo stesso Tribunale di Sorveglianza aveva inoltre evidenziato che nel corso del 2010 l’istituto carcerario aveva ospitato tra i 411 e i 415 detenuti, nonostante la struttura fosse stata costruita per contenere 178 detenuti, con una capienza tollerabile di massimo 376 unità. Un valore, quest’ultimo, ben lontano dai livelli raggiunti dalla struttura carceraria e segnalati dal Tribunale di Reggio Emilia.

Nel dispositivo della sentenza il Tribunale emiliano si era poi richiamato alla precedente pronuncia della C.E.D.U. nel caso Sulejmanovic c. Italia e aveva riconosciuto che i ricorrenti avevano subito trattamenti inumani per il fatto di aver dovuto condividere con altri due detenuti celle predisposte per una sola persona per lunghi periodi di tempo. Tale condizione detentiva costituiva, sempre secondo il Tribunale, anche motivo di discriminazione rispetto ai detenuti della stessa struttura carceraria che, invece, condividevano la cella con una sola persona.

Le condizioni descritte dai detenuti del carcere di Piacenza e Busto Arsizio, e confermate dalla richiamata sentenza del Tribunale di Sorveglianza di Reggio Emilia, vengono integralmente riportate dalla C.E.D.U. nella sentenza-pilota Torreggiani e altri c. Italia.

Nel caso richiamato la C.E.D.U. ha affrontato il tema del sovraffollamento carcerario come un problema strutturale dell’Italia, ed in considerazione del crescente numero di ricorsi provenienti dal nostro Paese in materia di condizioni di detenzione, ha deciso di evidenziare nuovamente perché le condizioni di detenzione nelle carceri italiane integrano ex-sé il requisito del “trattamento inumano e degradante” previsto all’art. 3 della Convenzione.

Per far ciò, la C.E.D.U. si è richiamata ai principi individuati nella nota sentenza Sulejmanovic.

Richiamandosi inoltre anche alle condizioni individuate dal CPT (Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura e dei Trattamenti Inumani e Degradanti), che fissano in 7m2 lo spazio minimo personale riservato a ciascun detenuto in ogni cella, stabiliscono l’utilizzo privato dei servizi igienici, un livello adeguato di aerazione e di riscaldamento degli spazi detentivi, e la possibilità di accesso alla luce e al’aria naturali, la C.E.D.U ha potuto accertare la violazione dell’articolo 3 della Convenzione.

Infatti nei due istituti di pena di Busto Arsizio e Varese i detenuti sono stati reclusi in 9m2 di cella in tre persone, con uno spazio personale di 3m2 ciascuno. Nel carcere di Piacenza, inoltre, mancava l’acqua calda e l’illuminazione delle celle risultava essere scarsa a causa delle sbarre metalliche alle finestre.

La C.E.D.U. ha pertanto ritenuto che via sia  stata una violazione dell’art. 3 della Convenzione,  affermando non solo la necessità di predisporre spazi adeguati per i detenuti, ma anche una diversa modalità di ricorso alla carcerazione.

In tal senso, la C.E.D.U. ha ripreso la Raccomandazione n° (99) 22 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, affermando che l’ampliamento delle carceri e la costruzione di nuove strutture deve essere concepita come “misura eccezionale”, cui ricorrere solo come extrema ratio.

La C.E.D.U. ha quindi suggerito di implementare il ricorso alle misure alternative alla detenzione, diminuendo il ricorso alla carcerazione preventiva, scarsamente garantista in quanto anticipatoria della condanna.

La C.E.D.U. ha poi deciso di pronunciarsi con una sentenza-pilota ai sensi dell’articolo 46 della Convenzione, costatando che il sovraffollamento delle carceri in Italia non riguarda solo i ricorrenti, bensì costituisce un problema strutturale e sistemico del nostro Paese.

Conseguentemente la violazione dell’art. 3 della Convenzione nei confronti dei ricorrenti non deve considerarsi come un “caso isolato”, ma come il “risultato di una disfunzione cronica propria del sistema penitenziario italiano, che ha investito ed è suscettibile di investire ancora in futuro numerosi soggetti”.

Secondo la C.E.D.U., le condizioni detentive nel sistema italiano pongono, di fatto, un serio problema di compatibilità con l’art. 3 della Convenzione, che si manifesta anche in relazione ad altri ricorsi relativi alle condizioni detentive di altre carceri italiane. La C.E.D.U. ha quindi invitato l’Italia a risolvere entro un anno dall’emissione della sentenza Torreggiani la questione del sovraffollamento carcerario.

La CEDU ha quindi condannato l’Italia a risarcire ai ricorrenti i danni morali subiti per un importo globale di circa 90.000 euro, riconoscendo a ciascun ricorrente la somma di 1.500 euro per spese e competenze legali.

(in collaborazione con l’avv. Barbara Bonafini del foro di Verona)