Il ritardo nella liberazione di un cittadino bosniaco dal centro di espulsione di Ponte Galeria viola l’articolo 5 § 1 della Convenzione: così decide la CEDU nel caso Hokic e Hrustic c. Italia
Strasburgo, 29 dicembre 2009 – Con sentenza del 1° dicembre 2009, la CEDU ha deciso nel caso Hokic e Hrustic c. Italia, accertando la violazione dell’art. 5 § 1 della Convenzione. I ricorrenti hanno introdotto un ricorso il 25 gennaio 2005 lamentando la violazione degli articoli 3, 5 e 8 della Convenzione riguardo alla regolarità della loro detenzione sia in vista dell’espulsione che successivamente all’annullamento dei decreti di espulsione. Il 25 aprile 2008, il ricorso è stato comunicato al Governo.
I ricorrenti sono una coppia di origine rom originari della Bosnia Erzegovina che all’epoca dei fatti vivevano a Roma con i loro figli in un campo nomadi.
I fatti della vicenda posso sinteticamente riassumersi così.
L’11 gennaio 2005, le forze di polizia si presentano al campo, dove trovano i due ricorrenti sprovvisti di valido permesso di soggiorno. I ricorrenti vengono portati in Questura a Roma, dove viene notificato a ciascuno un decreto di espulsione. Tale provvedimento è fondato su due motivi: in primo luogo gli interessati, dopo il loro arrivo in Italia, non hanno domandato ed ottenuto un permesso di soggiorno e in secondo luogo soggiornano in Italia irregolarmente essendosi sottratti ai controlli di frontiera.
Lo stesso giorno, l’11 gennaio 2005, il Questore ordina il trattenimento dei due ricorrenti presso il centro di Ponte Galeria.
Il 14 gennaio 2005, il Giudice di Pace di Roma convalida gli ordini di trattenimento.
Il 2 febbraio 2005 i ricorrenti presentano ricorso al Giudice di Pace opponendosi ai decreti di espulsione emessi nei loro confronti. I ricorrenti espongono che tali decreti hanno motivazioni contraddittorie che non permettono di comprendere il motivo dell’espulsione. Affermano inoltre di aver ottenuto tempo addietro un permesso per motivi umanitari poiché scappati dalla guerra nei Balcani e che il Comune di Roma conoscenva questo fatto, dato che era stato organizzato un censimento nel 1995. Il permesso di soggiorno per motivi umanitari dimostra inoltre che gli stessi non erano entrati in Italia sottraendosi al controllo alle frontiere.
Il 7 febbraio 2005 il Giudice di Pace di Roma proroga di un mese la detenzione dei ricorrenti.
Il 15 febbraio la ricorrente viene rimessa in libertà per ragioni di salute e il 24 febbraio 2005 il Giudice di Pace annulla il decreto di espulsione emesso nei confronti di quest’ultima. Secondo il Giudice di Pace il decreto di espulsione è da ritenersi illegittimo perché contraddittorio in quanto fa riferimento al fatto che la ricorrente non aveva chiesto un permesso di soggiorno una volta entrata in Italia, cosa non vera dato che la stessa aveva ottenuto un permesso di soggiorno per motivi umanitari, scaduto poi nel 1997.
Il 22 febbraio 2005 il Giudice di Pace annulla anche il decreto di espulsione emesso nei confronti del ricorrente con le stesse motivazioni e ordina che lo stesso venga rimesso in libertà. Tale decisione deve essere comunicata alle parti ai termini dell’art. 134 del codice di procedura civile ed è depositata in Cancelleria e comunque risulta essere stata depositata quello stesso giorno. Tuttavia la decisione viene comunicata all’ufficio stranieri della Questura di Roma solo il 3 marzo 2005. Quel giorno il ricorrente è ancora detenuto presso il centro di trattenimento di Ponte Galeria. Solo dopo una missiva dell’avvocato del ricorrente alla Questura di Roma il ricorrente è rimesso in libertà, questo alle otto di sera.
La legislazione interna nazionale applicabile al caso in esame richiamata dalla CEDU nel caso di specie è quella contenuta nel testo unico sull’immigrazione, il decreto legislativo n. 286 del 1998 poi modificato dalla legge n. 189 del 2002, richiamando in particolare gli articoli 13 e 14 in tema di espulsione degli stranieri.
Riguardo alla violazione dell’art. 5 della Convenzione, i ricorrenti sollevano due eccezioni distinte. La prima riguarda la detenzione in vista dell’espulsione, essendo il decreto di espulsione stato annullato successivamente. La seconda riguarda invece la rimessione in libertà tardiva del ricorrente.
Riguardo alla detenzione in vista dell’espulsione, la CEDU ha ritenuto di dover esaminare gli ordini di trattenimento del Questore e in particolare se i decreti di espulsione abbiamo costituito una base legale per la privazione di libertà subita dai ricorrenti. La CEDU chiarisce subito che l’annullamento successivo non incide, in quanto tale, sulla legittimità della detenzione nella fase antecedente alla convalida. La CEDU precisa quindi che per determinare se l’art. 5 § 1 della Convenzione sia stato rispettato nel caso di specie, deve essere fatta una distinzione tra i titoli di detenzione manifestamente invalidi, come quelli emessi da un Tribunale al di fuori delle proprie competenze, e i titoli restrittivi della libertà che sono prima facie validi ed efficaci fino al momento in cui vengono annullati da un’altra giurisdizione interna (§ 23).
La CEDU fa quindi presente che nel caso di specie i ricorrenti non hanno eccepito che il Questore di Roma abbia agito al di fuori delle proprie competenze.
In effetti dal testo della sentenza non è dato di sapere il contenuto dell’ordine di trattenimento emesso dal Questore.
Su questo punto apro una breve parentesi, ricordando che ai sensi dell’art. 14 del Testo unico sull’immigrazione stabilisce che il Questore, nel caso in cui non possa effettuare l’effettivo accompagnamento alla frontiera dello straniero clandestino, mediante l’utilizzo della forza pubblica, può disporre che lo stesso sia trattenuto presso un centro di permanenza temporanea per il tempo necessario alla sua espulsione. Il trattenimento è disposto dal Questore nel caso si debba procedere ad accertamenti in ordine alla identità e nazionalità dello straniero, ovvero al soccorso dello straniero, all’acquisizione di documenti di viaggio ovvero si debba attendere la disponibilità di un vettore.
Sulla base legale, la CEDU si limita a riferire che secondo il diritto interno il Questore aveva il potere di trattenere i ricorrenti anche se non chiarisce qual è il motivo a cui fa riferimento il Questore per limitare la libertà dei ricorrenti.
La CEDU ricorda quindi che i decreti di espulsione sono stati annullati dal Giudice di Pace in quanto si è constatato che i ricorrenti inizialmente titolari di un permesso di soggiorno, dopo la scadenza sono rimasti irregolari sul territorio italiano. Secondo la CEDU questa situazione non può ritenersi come una grave e manifesta irregolarità secondo la propria giurisprudenza (si veda mutatis mutandis, Liu e Liu c. Russia, no 42086/05, § 81, 6 dicembre 2007).
Secondo la CEDU le autorità italiane non hanno agito in mala fede dato che è sorto un malinteso che ha portato a credere che i ricorrenti fossero da sempre in situazione irregolare (si veda in merito Benham c. Regno Unito, sentenza del 10 giugno 1996). Questo malinteso non può quindi permettere di dire che la detenzione fosse illegittima o che i decreti di espulsione fossero prima facie, invalidi. Conseguentemente la CEDU conclude che questa prima eccezione è manifestamente non fondata e pertanto la rigetta ai sensi dell’articolo 35 §§ 3 e 4 della Convenzione.
Riguardo alla privazione di libertà dopo l’annullamento del decreto di espulsione, la CEDU accerta invece la violazione dell’art. 5 §1 della Convenzione.
Il ricorrente fa presente che la sua liberazione è avvenuta il 3 marzo 2005 alle 8 di sera, mentre la decisione che ordinava la sua liberazione è stata adottata la mattina del 1° marzo 2005 e quindi oltre 48 ore più tardi.
La CEDU richiama i principi generali, ricordando innanzitutto che le limitazioni al diritto alla libertà statuito dall’articolo 5 § 1 sono tassative e la loro interpretazione è rigorosa, ciò allo scopo di assicurare che nessuno venga privato della libertà in modo arbitrario (si veda Labita c. Italia [GC], no 26772/95, § 170).
La CEDU ricorda inoltre di avere il compito di esaminare con particolare attenzione tutte le eccezioni che vengono sollevate riguardo al ritardo nell’esecuzione di una decisione di rimessione in libertà (si veda Bojinov c. Bulgaria, no 47799/99, § 36, sentenza del 28 ottobre 2004). La CEDU pur ammettendo che spesso sia inevitabile il decorso di un certo lasso di tempo nel dare esecuzione ad una decisione di rimessione in libertà, sottolinea che tale termine deve essere ridotto al minimo (si veda Giulia Manzoni c. Italia, sentenza del 1° luglio 1997, § 25 in fine). Inoltre deve essere il Governo a fornire un quadro dettagliato di tutti i fatti pertinenti al rilascio di una persona (si veda Nikolov c. Bulgaria, no 38884/97, § 80, sentenza del 30 gennaio 2003).
Passando all’esame del caso di specie la CEDU fa presente che il provvedimento di liberazione del ricorrente è stato depositato in cancelleria il 1° marzo 2005 e che la sua liberazione è avvenuta il 3 marzo successivo alle 8 di sera. Inoltre la sola formalità prevista dopo il deposito della decisione del Giudice di Pace era la comunicazione alle parti. La CEDU sottolinea, tra le altre cose, che tra la decisione del Giudice di Pace, avvenuta il 22 febbraio 2005 e il suo deposito, avvenuto il 1° marzo 2005, sono decorsi ben sei giorni.
Per tali motivi, la CEDU ha dichiarato che vi è stata violazione dell’art. 5 § 1 della Convenzione.
Quanto alle altre violazioni eccepite dai ricorrenti e riguardanti gli articoli 3 e 8 della Convenzione, la CEDU li ha respinti o perché i ricorrenti non potevano più pretendersi vittime ovvero perché non avevano sufficientemente fondato l’asserita violazione degli articoli convenzionali invocati.
La CEDU ha riconosciuto 1.500 euro a titolo di danno morale al solo ricorrente.