La C.E.D.U. condanna l’Ucraina perché responsabile della morte di un detenuto malato di A.I.D.S., deceduto subito dopo la sua scarcerazione

carcereStrasburgo, 25 aprile 2013 – Con sentenza del 14 marzo 2013 la C.E.D.U., nel caso Salakhov e Islyamova c. Ucraina (ricorso n. 28005/08), ha accertato la violazione degli articoli 2 e 3, nonché dell’art. 34, della Convenzione da parte dell’Ucraina per la morte di un detenuto affetto da HIV, avvenuta a breve distanza dal suo rilascio.

Il ricorso fu presentato inizialmente dal signor Linar Irekovich Salahkov, cittadino ucraino  (il primo ricorrente), il quale decedette in corso di causa. Nel giudizio subentrò quindi la madre, la signora Aliya Fazylovna Islyamova (la seconda ricorrente).

La vicenda del primo ricorrente ha inizio il 20 novembre 2007, quando fu arrestato con l’accusa di  aver rapinato un telefono cellulare ad un conoscente. Secondo quanto sostenuto dalla seconda ricorrente, il primo ricorrente informò immediatamente l’autorità di polizia ucraina di essere malato di A.I.D.S., esprimendo anche la propria preoccupazione che la sua salute avrebbe potuto peggiorare a causa della detenzione.

Dalla data del suo arresto e sino alla scarcerazione, avvenuta il 4 agosto 2008, il primo ricorrente fu alternativamente detenuto in carcerazione preventiva nei centri di detenzione di Bakhchysaray (c.d. “ITT”), e di Sinferopoli (c.d. “SIZO”)..

Con sentenza del 4 luglio 2008, il Tribunale di Bakhchysaray derubricò il reato a frode, condannando il primo ricorrente al pagamento della sola pena pecuniaria per un ammontante di circa 115 euro. Il ricorrente fu quindi rilasciato. La carcerazione preventiva ebbe una durata di oltre otto mesi.

Il primo ricorrente decedette il 2 agosto 2008, a meno di un mese dal suo rilascio.

Durante tutto il periodo di carcerazione preventiva, le condizioni di salute del primo ricorrente peggiorarono progressivamente.

Con l’aggravarsi delle condizioni di salute, il primo ricorrente fu trasferito presso il locale ospedale, ove, il 5 giugno 2008, quindi dopo oltre sei mesi dall’arresto, gli fu diagnosticato l’A.I.D.S. al quarto stadio di latenza clinica. In quell’occasione, il medico definì le condizioni del primo ricorrente come “moderatamente serie”.

Le contestuali e plurime richieste di scarcerazione per motivi di salute formulate dal legale del primo ricorrente furono sistematicamente respinte dal locale Tribunale di Bakhchysaray.

In considerazione del grave e rapido peggioramento delle condizioni di salute, i ricorrenti adirono in via d’urgenza la CEDU, che, in applicazione dell’art. 39 del Regolamento, invitò il Governo ucraino a trasferire immediatamente il ricorrente in una struttura ospedaliera idonea alla cura della sua grave patologia.

Dopo alcuni giorni, il ricorrente fu ricoverato in ospedale dove, seppur gravemente malato, fu ammanettato al letto. Il ricorrente fu quindi trasferito nel centro medico del “SIZO”, dove, pur essendo quasi in fin di vita, continuò ad essere ammanettato al letto.

Dopo la morte del primo ricorrente, la madre e seconda ricorrente denunciò che la mancanza di cure mediche tempestive ed adeguate durante il periodo di detenzione del figlio erano state la causa del decesso.

Secondo un’inchiesta condotta da un’apposita Commissione istituita dal Ministero della Salute ucraino, risultò che il deterioramento delle condizioni di salute del primo ricorrente era attribuibile al ritardo nelle cure prestate.

Le indagini condotte dalle autorità interne non portarono comunque ad identificare alcuna responsabilità penale né tra il personale dei due centri di detenzione, né tantomeno tra il personale medico dell’ospedale che aveva preso in cura il primo ricorrente, vuoi anche per la scarsissima documentazione medica esistente.

I ricorrenti hanno eccepito la violazione del diritto alla salute, all’integrità psico-fisica e alla vita del primo ricorrente, nonché l’essere stati sottoposti a trattamenti inumani e degradanti, in violazione degli art. 2 e 3  della Convenzione.

Quanto alla lamentata violazione dell’articolo 3 della Convenzione (divieto di trattamento inumano e degradante), la C.E.D.U. ha ribadito che gli Stati hanno l’obbligo di garantire ai detenuti le stesse cure, mediche e psico-sociali, che vengono assicurate a tutti gli altri membri della comunità (Kudla c. Polonia) e che la mancanza di cure adeguate costituisce un trattamento inumano e degradante.

Nel caso di specie, la C.E.D.U. ha osservato che pur sollecitate, non sono state fornite le cure mediche necessarie. Secondo la C.E.D.U., la pressoché totale assenza di documentazione medica è indicativa del mancato assolvimento da parte dello Stato degli obblighi di protezione derivanti dall’art. 3 della Convenzione.

Quanto all’adeguatezza delle cure mediche ricevute in ospedale, la C.E.D.U. ha ritenuto  lo Stato ucraino responsabile perché i medici hanno sottostimato la gravità delle condizioni di salute del ricorrente, rifiutando il ricovero urgente. Anche sotto questo profilo, la C.E.D.U. ha ritenuto che vi sia stata violazione dell’art 3 della Convenzione.

Quanto all’ammanettamento al letto di degenza, la C.E.D.U. ha ritenuto che, stante il grave stato di debilitazione fisica del primo ricorrente, tale trattamento abbia costituito un trattamento inumano e degradante.

Sotto il profilo dell’articolo 2 della Convenzione (diritto alla vita), la C.E.D.U. richiamandosi alla propria consolidata giurisprudenza, ha ribadito che tale norma deve essere interpretata ed applicata in modo da garantire una tutela in concreto ed effettiva del diritto alla vita (Mc Cann e altri c. Regno Unito). Tale norma pone quindi a carico delle autorità pubbliche l’obbligo di adottare preventivamente misure concrete per proteggere l’individuo (Osman c. Regno Unito).

Nel caso di specie la C.E.D.U. ha esaminato la compatibilità della detenzione con lo stato di salute del primo ricorrente, concludendo che alcun parametro esaminato – le condizioni mediche, l’adeguatezza delle cure e la proporzionalità della misura restrittiva adottata,  fosse stato rispettato con lo stato di detenzione del primo ricorrente. La C.E.D.U. ha quindi ritenuto che vi sia stata violazione dell’articolo 2 della Convenzione sotto il profilo sostanziale.

La C.E.D.U. ha ritenuto infine che vi sia stata violazione dell’articolo 2 della Convenzione anche sotto il profilo procedurale, in quanto le indagini compiute dalle autorità pubbliche interne non sono state sufficientemente adeguate, imparziali e indipendenti.

La C.E.D.U. ha ritenuto che vi sia stata violazione dell’articolo 3 della Convenzione anche nei confronti della seconda ricorrente per il perdurante stato di sofferenza mentale, angoscia e preoccupazione che è stata costretta a vivere a fianco del primo ricorrente.

Infine, la C.E.D.U. ha ritenuto che vi sia stata violazione dell’articolo 34 della Convenzione, in quanto lo Stato ucraino non ha prontamente eseguito la misura cautelare indicata ai sensi dell’articolo 39 del Regolamento.

La CEDU ha condannato lo Stato ucraino a risarcire alla seconda ricorrente 50.000 euro a titolo di risarcimento quale erede del primo ricorrente deceduto e 10.000 euro a titolo di risarcimento dei danni morali subiti personalmente. Le spese legali sono state liquidate in 925 euro.

Si noti che i principi sanciti in questa sentenza sono applicabili a tutti gli Stati contraenti della Convenzione e pertanto anche allo Stato italiano.

Trasmissione dell’HIV e dell’epatite C per trasfusione di sangue, la CEDU accerta la violazione degli articoli 2 e 14 della Convenzione nel caso G.N. e altri c. Italia

Strasburgo 27 dicembre 2009 – Il 1° dicembre la CEDU ha deciso con sentenza nella causa G.N. e altri c. Italia (n. 43134/05), accertando la violazione degli artt. 2, sotto il profilo procedurale, e 14 della Convenzione, condannando l’Italia a pagare ai ricorrenti la somma complessiva di 156.000 euro, oltre a 8.000 euro per spese e competenze legali.

Si tratta di casi di contaminazione da trasfusione di sangue, dove le persone sottoposte a tali trattamenti sono state infettate dal virus HIV o dall’epatite C. La CEDU ha riconosciuto anche che i ricorrenti, eredi di persone colpite da talassemia, ovvero persone direttamente colpite da talassemia, hanno subito un pregiudizio patrimoniale non avendo potuto beneficiare del componimento bonario proposto dal Ministero della Salute solamente alle persone emofiliche.

I ricorrenti hanno presentato nel novembre 2005 un ricorso, lamentando la violazione degli articoli 2, 3, 8 6 e 14 della Convenzione. I ricorrenti hanno inoltre chiesto di trattare il loro ricorso in priorità ai sensi dell’art. 41 del Regolamento della CEDU. Il ricorso è stato comunicato al Governo nel maggio 2008.

I fatti riguardano le vicissitudini di persone affette da talassemia che hanno ricevuto periodicamente trasfusioni di sangue con prodotti sanguigni forniti gratuitamente dal servizio sanitario nazionale.  A causa di tali trasfusioni queste persone sono state contagiate dal virus dell’HIV o dal virus dell’epatite C. Solo una delle quattro persone coinvolte in questa vicenda è ad oggi ancora viva.

A livello nazionale i ricorrenti, in qualità di eredi o personalmente, avevano presentato al Ministero della Salute una richiesta di indennizzo ai sensi della legge n. 210 del 25 febbraio 1992 a causa del contagio subito per le trasfusioni di sangue infetto. Le commissioni mediche competenti, su richiesta del Ministero della Salute, avevano riconosciuto, tra il 1993 e il 1994, l’esistenza di un nesso di causalità tra le trasfusioni e il contagio dei virus dell’HIV o quello dell’epatite C. Il Ministero della Salute aveva quindi corrisposto gli indennizzi richiesti.

Nel frattempo, il 21 dicembre 1993, un centinaio di persone aveva citato il Ministero della Salute davanti al Tribunale civile di Roma per ottenere il risarcimento dei danni per il contagio subito. Tutti i ricorrenti intervengono in questo procedimento, denominato “Emo uno”, peraltro già esaminato dalla CEDU in altre pronunce, sotto il profilo dell’eccessiva durata della procedura nazionale (A.B., E.F. e C.C. c. Italia, nn. 37874/97, 37878/97 e 37879/97, rapporto della Commissione del 4 marzo 1998, non pubblicata ; M.A. e altri c. Italia, regolamento amichevole, nn. 44814/98, 45401/99, 45732/99, 47463/99 e 47724/99, 30 novembre 2000 ; M.L. e altri c. Italia, regolamento amichevole, n. 53705/00, 5 aprile 2001, Mas.A. e altri  c. Italia, regolamento amichevole, n. 53708/00, § 13, 7 giugno 2001).

Il processo “Emo uno” dura oltre sei anni, in primo grado dal 1994 al 1998, si conclude con sentenza del 7 luglio 1998, depositata in cancelleria il 27 novembre 1998. Il Tribunale di Roma accerta la responsabilità del Ministero della Salute e lo condanna a pagare i danni. Tuttavia la quantificazione dei danni deve essere accertata con separato giudizio.

In secondo grado, dura un paio d’anni. Il Ministero della Salute, si appella nel 1999. Con sentenza del 4 ottobre 2000, depositata in cancelleria il 23 ottobre 2000 la Corte d’appello di Roma riforma la sentenza di primo grado. La Corte d’appello di Roma considera infatti che il test di ricerca del virus dell’epatite B e del virus dell’HIV e il procedimento di termotrattamento del sangue che permette di rendere inattivo quest’ultimo virus erano disponibili rispettivamente dal 1978 e dal 1985, nonostante la conoscenza di tali virus e della loro trasmissibilità per via ematica risalisse rispettivamente al 1970 e al 1984. La Corte d’appello rileva inoltre che a partire dal 1988 il Ministero della Salute aveva imposto il termotrattamento del sangue nella preparazione dei prodotti ematici al fine di prevenire la trasmissione dell’epatite che all’epoca veniva denominata come “non-A non-B” anche se il test per rilevare l’epatite C diventa disponibile nel 1989. La Corte d’appello condanna quindi il Ministero della Salute ma unicamente per i contagi da virus dell’epatite B, dell’HIV e del virus dell’epatite C avvenute rispettivamente dopo il 1978, 1985 e 1988. Cosi facendo la Corte d’appello respinge in parte la richiesta di risarcimento danni delle parti attrici.

Queste ultime presentano ricorso in cassazione. Con sentenza del 31 maggio 2005, la Corte di Cassazione conferma la sentenza della Corte d’Appello di Roma. In particolare la Suprema Corte afferma che per il periodo anteriore alla scoperta da parte della comunità scientifica mondiale dei virus dell’HIV  e dell’epatite C, e dei test relativi, dato che la possibilità di contagio per questi virus era sconosciuta, non poteva sussistere il nesso di causalità tra il comportamento del Ministero e l’evento dannoso. La Corte d’Appello aveva dunque giustamente fatto riferimento ad epoche in cui erano stati approntati metodi di rilevazione dei virus e non a quelle, precedenti, in cui era notorio che le trasfusioni di sangue o la somministrazione di prodotti ematici potevano veicolare delle infezioni. La Corte di Cassazione sottolinea inoltre che l’indennizzo previsto dalla legge n. 210 del 1992 era una misura d’assistenza fondata sugli articoli 2 e 38 della Costituzione, diversa quindi dal risarcimento per responsabilità civile prevista dall’art. 2043 del codice civile. In effetti in questo caso il danno risarcibile, il cui ammontare viene determinato caso per caso, è legato alla commissione di un fatto illecito, mentre l’indennizzo, il cui ammontare è predeterminato per legge, dipende dalla sola verifica del contagio derivato dalla trasfusione. La Corte di Cassazione conclude quindi che il diritto all’indennizzo ai sensi della legge n. 201 del 1992 non esclude la possibilità per gli interessati di chiedere alla autorità giudiziaria di valutare l’esistenza di una responsabilità civile in capo allo Stato in casi particolari.

Nel frattempo, con decreto del 3 novembre 2003, il Ministero della Salute stabilisce i criteri che permettono di definire transattivamente le controversie in atto con le persone emofiliche danneggiate da sangue o emoderivati infetti. Tuttavia i ricorrenti, talassemici, non riescono a beneficiare di tali transazioni.

La CEDU, prima di passare all’esame delle violazioni lamentate dai ricorrenti, ricostruisce il quadro della legislazione e della giurisprudenza pertinente a livello sia nazionale che internazionale.

A livello nazionale, la CEDU richiama la legge n. 592 del  14 luglio 1967, che conferisce al Ministero della salute le competenze in materia di direzione e sorveglianza dei servizi di raccolta, conservazione e distribuzione del sangue umano;  il decreto del Presidente della Repubblica n. 1256 del 24 agosto 1971, che vieta a persone affette da epatite di donare il sangue ; la legge n. 833 del 23 dicembre 1978, istitutiva del servizio sanitario nazionale, che prescrive tra l’altro l’adozione di norme uniformi in materia di raccolta, trattamento, conservazione e distribuzione del sangue. Tali norme sono state rese operative dalla legge n. 107 del 4 maggio 1990, abrogativa della legge n. 592/67 ; la legge n. 210 del 25 febbraio 1992, richiamando specificamente gli articoli da 1 a 5 .

La CEDU richiama inoltre alcune circolari e decreti emanati dal Ministero della Salute in questa materia e precisamente: la circolare n. 68 del 24 luglio 1978, la circolare n. 64 del 3 agosto 1983, la circolare n. 65 del 24 agosto 1984. la circolare n. 28 del 17 luglio 1985, il decreto n. 14 del 15 gennaio 1988, il decreto del 21 luglio 1990 e il decreto del 15 gennaio 1991.

Infine la CEDU ricorda la legge n. 141 del 20 giugno 2003 e il decreto del Ministero della Salute del 3 novembre 2003 per ottenere il risarcimento dei danni subiti per trasfusioni di sangue infetto.

La CEDU infine richiama altri due processi, denominati “Emo bis” e “Emo ter

Riguardo al procedimento “Emo bis”, la CEDU ricorda che il Tribunale di Roma con sentenza depositata in data 14 giugno 2001, condanna il Ministero della Salute a risarcire i danni causati ad un certo numero di persone contagiate dai virus dell’epatite B, HIV ed epatite C per trasfusione dove i contagi erano avvenuti prima che fossero stati individuati dei test per rilevare tali virus. Questo perché il rischio di infezione per trasfusione era conosciuto dall’inizio degli anni ’70. Pertanto secondo il Tribunale, il Ministero della Salute avrebbe dovuto verificare l’innocuità dei lotti di sangue importati dall’estero a partire da quel periodo. Inoltre, dato che il metodo di trasmissione dei tre virus era identico, l’adozione di metodi e di controlli volti ad evitare la trasmissione dell’epatite B avrebbe impedito al tempo stesso la diffusione dell’HIV e del virus dell’epatite C. Tale sentenza viene confermata dalla Corte d’Appello di Roma in data 12 gennaio 2004. Anche la Corte di Cassazione a Sezioni Unite decide sulla vicenda. Con sentenza depositata in cancelleria l’11 gennaio 2008, la Suprema Corte, dopo aver ricordato la differenza esistente tra l’indennizzo previsto dalla legge n. 210/92 e il risarcimento previsto dall’art. 2043 del codice civile per fatto illecito, statuisce accertando che il Ministero della Salute era responsabile civilmente dei contagi per omissione. Tuttavia la Corte di Cassazione decide di rinviare la causa al giudice di secondo grado per la determinazione della decorrenza per tale responsabilità. Questa procedura risulta ancora pendente alla data del 23 marzo 2009.

Riguardo al procedimento “Emo ter”, la CEDU riferisce che con sentenza depositata il 29 agosto 2005, il Tribunale di Roma decide per un terzo gruppo di persone contagiate dagli stessi virus. Il Tribunale accerta che esistevano dei test per accertare l’esistenza del virus dell’epatite B a partire dagli anni 1972-74 e che pertanto la responsabilità del Ministero della Salute doveva decorrere da quel momento. Il Tribunale di Roma affermava inoltre di essere d’accordo con le ragioni riportate nelle decisioni di primo e di secondo grado nella causa “Emo bis” e invece di essere in disaccordo con la sentenza della Corte di Cassazione nel procedimento “Emo uno”.

La sentenza del Tribunale di Roma è stata impugnata davanti alla Corte d’Appello di Roma e la causa è tuttora pendente, essendo prevista  la prossima udienza per il 12 gennaio 2010.

La CEDU richiama poi la normativa esistente a livello internazionale.

In particolare la CEDU fa riferimento a cinque raccomandazioni del Consiglio d’Europa e precisamente alla n. (80)5 del 30 aprile 1980, n. (81)14 dell’11 settembre 1981, n. (83)8 del 23 giugno 1983 e n. (85)12 del 13 settembre 1985 e n. (88)4 del 7 marzo 1988. Infine la CEDU richiama l’articolo 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che stabilisce che “è vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata in particolare (…) sulle caratteristiche genetiche. (…) gli handicap (…)”.

La CEDU passa quindi ad esaminare il merito della causa.

Prima però decide che l’eccezione preliminare del Governo italiano è da rigettare. Difatti il Governo italiano aveva chiesto alla CEDU di rigettare il ricorso in quanto i ricorrenti non potevano più ritenersi vittime, avendo gli stessi ottenuto gli indennizzi previsti dalla legge n. 210/92.  Ma la CEDU ha ritenuto tale argomentazione non convincente per due ragioni.

Innanzitutto perché le violazioni lamentate dai ricorrenti riguardano gli articoli 2 e 3 della Convenzione che sono le disposizioni più importanti della Convenzione.

In secondo luogo perché l’indennizzo in questione è una forma di assistenza, diverso quindi dal risarcimento previsto dall’art. 2043 del codice civile. Difatti l’indennizzo previsto dalla legge n. 210/92 fa astrazione da un’eventuale responsabilità civile dello Stato.

Secondo la CEDU è fondamentale in casi come questo, dove vengono invocati gli articoli 2 e 3 della Convenzione, che lo Stato ponga in essere un sistema giudiziario efficace volto ad identificare le cause delle violazioni lamentate e che, se del caso, imponga ai responsabili di rispondere della loro condotta.

La CEDU dopo aver affermato che i ricorrenti possono ritenersi vittime delle violazioni lamentate, passa all’esame di quanto sollevato ai sensi dell’art. 2 della Convenzione. I ricorrenti in particolare affermano che vi è stata violazione del loro diritto alla vita, perché da una parte c’è stata un’assenza di quel controllo necessario atto a prevenire la somministrazione di sangue infetto e dall’altra perché vi è stato un rifiuto di risarcimento dei danni subiti. Quanto a questo secondo aspetto i ricorrenti si lamentano che vi è stata violazione dell’obbligo procedurale di protezione del diritto alla vita previsto dall’art. 2 della Convenzione.

La CEDU dopo aver rigettato l’eccezione preliminare specifica per questo articolo, formulata dal Governo italiano sulla posizione della qualità di vittima di una ricorrente ancora in vita e sul fatto che alcuni ricorrenti avrebbero definito bonariamente altri ricorsi vertenti sull’eccessiva durata delle procedure nazionali, passa all’esame nel merito.

La CEDU richiama i principi generali, ricordando che la prima frase dell’articolo 2 impone agli Stati non solo l’obbligo negativo di astenersi dal procurare la morte “intenzionalmente”, ma anche l’obbligo sostanziale positivo di adottare tutte le misure necessarie per proteggere la vita delle persone che si trovino sotto la propria giurisdizione (si vedano in merito le sentenze (L.C.B. c. Regno Unito, § 36, e Pretty c. Regno Unito, no 2346/02, § 38,); che tale obbligo positivo comporta che lo Stato ponga in essere un sistema regolamentare che imponga agli ospedali, siano essi pubblici o privati, di adottare misure idonee ad assicurare la protezione della vita dei pazienti (si vedano in particolare Erikson c. Italia, no 37900/97, decisione del 26 ottobre 1999 ; Powell c. Regno Unito, no 45305/99, decisione ; Işıltan c. Turchia, no 20948/92, decisione CommEDU del 22 maggio 1995, e Calvelli e Ciglio c. Italia, § 49); che questo obbligo impone allo Stato di porre in essere un sistema giudiziario efficace ed indipendente in grado di stabilire la causa del decesso della persona che si trovava sotto la responsabilità dei sanitari, con l’obbligo per questi ultimi di rispondere della loro condotta; che in caso di attentato involontario alla vita o all’integrità fisica lo Stato non è obbligato a ricorrere necessariamente ad una sanzione penale, ma può essere sufficiente la possibilità di instaurare un procedimento civile affinché venga stabilità la responsabilità e venga applicata una sanzione civile appropriata, come il riconoscimento e il pagamento dei danni e la pubblicazione della sentenza, mentre sono auspicabili l’applicazione di sanzioni disciplinari (si vedano in particolare Calvelli e Ciglio, § 51 ; Lazzarini e Ghiacci,  Vo c. Francia [GC], no 53924/00, § 90, Karchen e altri  c. Francia); che l’articolo 2 impone allo Stato anche un obbligo procedurale, obbligo da esaminarsi separatamente dall’obbligo positivo di adottare tutte le misure necessarie per proteggere la vita e che può portare a dichiarare la violazione della norma convenzionale solamente sotto questo aspetto (si vedano tra le tante Kaya c. Turchia, sentenza del 19 febbraio 1998, §§ 74-78 e 86-92, McKerr c. Regno Unito, no 28883/95, §§ 116-161, Scavuzzo-Hager e altri c. Svizzera, no 41773/98, §§ 53-69 e 80-86, sentenza del 7 febbraio 2006  e Ramsahai e altri c. Paesi Bassi, no 52391/99, sentenza [GC] §§ 286-289 e 323-357).

La CEDU passa quindi ad applicare i principi generali enunciati al caso di specie. La CEDU prende atto che le cause del contagio sono pacifiche, ossia che sono avvenute a causa di trasfusioni o somministrazione di sangue o di prodotti derivati forniti dalle strutture sanitarie pubbliche. La CEDU passa quindi ad esaminare se l’obbligo sostanziale è stato rispettato, ossia se le autorità italiane abbiano fatto tutto quello che era ragionevolmente possibile per impedire il concretizzarsi di un rischio certo ed immediato per la vita di cui avevano o avrebbero dovuto avere conoscenza.

La CEDU procede quindi individuando il momento in cui il Ministero della Salute ha avuto o avrebbe dovuto avere conoscenza del rischio di trasmissibilità del virus HIV e dell’epatite C attraverso le trasfusioni, nonché la conoscenza degli accorgimenti tecnici capaci di ridurre o di eliminare tale rischio.

La CEDU prende in considerazione il fatto che nel processo denominato “Emo Uno” le autorità giudiziarie hanno stabilito che il Ministero della Salute non poteva conoscere l’esistenza del virus HIV prima del 1985, ossia prima che venisse posto in essere un test ad hoc e non poteva sapere, questo fino al 1988, che il riscaldamento del sangue poteva essere un metodo valido per evitare la trasmissione dell’epatite C. Su tali date, la CEDU, pur con prudenza, osserva che il metodo del riscaldamento del sangue è un test che è stato riconosciuto come pacificamente efficace a partire dal 1985 e che nelle procedure “Emo bis” ed “Emo ter” vi è stato un cambiamento giurisprudenziale. Tuttavia la CEDU non ritiene sufficienti questi elementi per poter ritenere che vi sia stata una responsabilità da parte delle autorità italiane, tanto più che i ricorrenti, su questo punto, non sono stati in grado di fornire alcun elemento che potesse dimostrare una qualche responsabilità da parte dello Stato italiano. Per tali considerazioni la CEDU conclude che non c’è stata violazione quanto all’obbligo sostanziale nascente dall’art. 2 della Convenzione.

Riguardo all’obbligo procedurale, la CEDU osserva che i ricorrenti hanno potuto agire giudizialmente nei confronti del Ministero della Salute per il risarcimento dei danni subiti e pertanto il sistema italiano offre, in linea teorica, un sistema rispondente alle esigenze richieste dall’art. 2 della Convenzione. La CEDU è quindi passata ad esaminare se nel caso concreto la procedura messa a disposizione dei ricorrenti ha operato entro un termine che permettesse di concludere nel merito le cause sottoposte all’esame giudiziario. Esaminando la durata delle varie procedure civili promosse dai ricorrenti e prendendo in considerazione che in caso ove l’oggetto della causa verta sul risarcimento danni per contagio da virus HIV si deve applicare alla procedura una diligenza eccezionale.

Secondo la CEDU la durata delle procedure è stata eccessiva. La CEDU sottolinea inoltre che il ricorso al rimedio previsto dalla legge n. 89 del 24 marzo 2001, la c.d. “legge Pinto”, non avrebbe permesso di rimediare a tale eccessiva durata dato che in gioco, nel caso di specie, non vi era solo l’eccessiva durata di una procedura ma la questione di sapere se lo Stato avesse adempiuto all’obbligo procedurale imposto dall’art. 2 della Convenzione. Pertanto la CEDU ha ritenuto che ci sia stata violazione dell’art. 2 della Convenzione sotto il profilo procedurale.

I ricorrenti hanno poi eccepito la violazione dell’art. 14 della Convenzione (divieto di discriminazione) combinato con gli articoli 2, 3 e 8 della Convenzione affermando di essere stati fatti oggetto di un trattamento discriminatorio rispetto a tre categorie di persone e precisamente quelle che hanno contratto l’epatite B, l’HIV e l’epatite C rispettivamente dopo il 1978, 1985 e 1988; quelle che, infettate da questi virus prima di queste date, hanno vinto la causa nelle procedure “Emo bis” ed “Emo ter”; infine quelle che in quanto emofiliache hanno potuto beneficiare del componimento amichevole proposto dal Governo.

La CEDU dopo aver ripercorso i principi generali elaborati sull’art. 14 (§§ 114-117), passa all’esame della ricevibilità. La CEDU si concentra sull’esame dell’art. 14 combinato con l’art. 2 della Convenzione, essendo le violazioni sugli altri articoli non è sostenuto da elementi di fatto sufficienti. La CEDU ha ritenuto che ci sia discriminazione solo tra i ricorrenti e le persone emofiliche che hanno potuto beneficiare dell’accordo transattivo proposto dal Governo.

La CEDU ha invece dichiarato irricevibili le pretese violazioni degli articoli 3 e 8 della Convenzione.