Nella crisi Ucraina anche la Corte europea dei diritti dell’Uomo interviene, imponendo alla Russia di astenersi dal compiere atti che possano violare i diritti umani

Crimea-russaStrasburgo, 17 marzo 2014 – Con ricorso interstatale introdotto il 13 marzo 2014 nei confronti della Russia ai sensi dell’articolo 33 della Convenzione (n. 20958/14), l’Ucraina ha chiesto alla C.E.D.U. di adottare le misure provvisorie previste dall’articolo 39 del Regolamento al fine di scongiurare che la Russia occupi i propri territori.

La C.E.D.U. ha quindi emesso in urgenza il provvedimento invocato, imponendo alla Russia di astenersi dall’adottare tutte quelle misure – in particolare quelle a carattere militare – che possano costituire una grave minaccia alla vita e alla salute della popolazione civile ucraina. La C.E.D.U. ha richiamato gli articoli 2 (diritto alla vita) e 3 (divieto di trattamenti inumani e degradanti) della Convenzione.

La C.E.D.U. ha inoltre sollecitato le Parti contraenti a tenerla informarla riguardo alle misure che adotteranno per assicurare il pieno rispetto della Convenzione.

ILVA DI TARANTO: LA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO COMUNICA AL GOVERNO ITALIANO IL CASO SMALTINI

2taranto__ilvaStrasburgo, 14 gennaio 2014 – Il 4 ottobre 2013 è stato comunicato al Governo italiano il caso Smaltini c. Italia (ric. n. 43961/09), che porta all’attenzione della C.E.D.U. la delicata questione sulle conseguenze delle emissioni nocive provenienti dallo stabilimento ILVA sulla salute degli abitanti della città di Taranto.

I ricorrenti sono i familiari della signora Smaltini, cittadina della città pugliese, anche lei ricorrente, deceduta dopo la presentazione del ricorso alla C.E.D.U. a causa di una leucemia nel dicembre del 2012, dopo sei anni di malattia.

I ricorrenti lamentano la violazione degli articoli 6 (diritto a un processo equo), e 2 (diritto alla vita), della Convenzione. Con riferimento al rispetto delle regole del giusto processo essi ritengono che la scelta delle autorità nazionali di archiviare il caso originato dalla denuncia della signora Smaltini in seguito a indagini poco approfondite svolte da una commissione di esperti nominata in modo irregolare che ha prodotto una perizia incompleta, non basata su dati statistici aggiornati e sulle reali condizioni di salute dalla donna, violi il primo paragrafo dell’articolo 6; sul fronte dell’art. 2 della Convenzione, i ricorrenti lamentano la violazione del diritto alla vita della prima ricorrente, che è infatti deceduta in pendenza del procedimento davanti alla C.E.D.U. a causa della malattia.

La questione è chiaramente di grande rilevanza e la C.E.D.U. si esprimerà sull’operato delle autorità italiane riguardo al caso “I.L.V.A.”.

Al Governo italiano sono state poste tre domande e precisamente:    

  1. Quali sono i dati scientifici ufficiali di cui disponevano le autorità al tempo dei fatti per poter accertare l’esistenza di un nesso causale tra la morte della prima ricorrente e le emissioni provenienti dallo stabilimento Ilva?
  2. Il diritto alla vita della prima ricorrente è stato violato, nel caso di specie, dal punto di vista sostanziale?
  3.  Avendo riguardo alla tutela processuale del diritto alla vita, le indagini svolte dalle autorità nazionali possono dirsi effettive ai sensi dell’art. 2 della Convenzione?

L’inquinamento prodotto negli anni dallo stabilimento I.L.V.A. di Taranto è stato al centro di numerose pronunce da parte delle autorità nazionali. Ultimamente si ricordano due sequestri preventivi, dell’impianto prima e dei prodotti poi, il decreto legge n. 207 del 3 dicembre 2012 poi convertito con legge n. 231 del 24 dicembre 2012 che, sostanzialmente, aveva lo scopo di vanificare gli effetti dei sequestri giudiziari, consentendo la commercializzazione dei prodotti dello stabilimento ed, infine, una pronuncia della Corte costituzionale (sentenza n. 85/2013), che si è espressa dichiarando inammissibili e infondate le questioni sollevate dal G.I.P del Tribunale di Taranto e dal Tribunale ordinario di Taranto. La Corte costituzionale ha affermato che l’intervento legislativo sia stato conforme ai principi costituzionali, sussistendo un giusto bilanciamento degli interessi in gioco e presi in considerazione dal c.d. “decreto salva Ilva”. In tal modo la Corte costituzionale ha negato, nella sostanza, l’esistenza di una gerarchia tra diritti costituzionalmente garantiti, ovvero il diritto al lavoro e all’iniziativa economica, da una parte, e il diritto alla salute e all’ambiente salubre, dall’altra.

Nel ricorso si legge che la prima ricorrente, dopo essere venuta a conoscenza di essere malata di leucemia, si rivolse all’autorità competente, denunciando i proprietari dello stabilimento tarantino in ragione del comprovato nesso di causalità esistente tra le emissioni nocive della fabbrica e l’incremento dei casi di cancro e leucemia nella zona limitrofa. La signora Smaltini aveva chiesto che venissero svolte delle indagini approfondite al fine di sancire l’esistenza di tale legame e che, in particolare ne fosse provata l’incidenza causale con l’insorgere della propria malattia.

Tuttavia, il pubblico ministero chiese l’archiviazione del caso. A tale richiesta si oppose la signora Smaltini che incentrava la propria doglianza sia su una precedente condanna dei proprietari della fabbrica, sia sui dati contenuti nella relazione pubblicata dalla sezione di Taranto dell’AIL (Associazione Italiana Leucemie – linfomi mieloma), sia sulle dichiarazioni del primario del reparto di ematologia dell’ospedale di Taranto. In seguito a tale opposizione, il G.I.P. presso il Tribunale di Taranto incaricò il Pubblico Ministero di svolgere un’indagine più approfondita.

Il Pubblico Ministero nominò, quindi, una commissione di consulenti composta da un medico legale e da un ematologo al fine di  valutare l’esistenza di tale eventuale nesso causale.

Le analisi svolte dai consulenti tecnici, tuttavia, non confermarono quanto denunciato dalla prima ricorrente e la perizia affermò che la percentuale di decessi per cancro o leucemie non era superiore a quella altre di zone d’Italia e non tenne in alcuna considerazione i dati forniti dalle associazioni ambientaliste e mediche: secondo i consulenti d’ufficio non sussisteva alcun nesso di causalità tra le emissioni dello stabilimento I.L.V.A e l’insorgere di malattie.

Sulla base di tale perizia il pubblico ministero rinnovò la richiesta di archiviazione e, nuovamente, a tale decisione si oppose la ricorrente sottolineando, tra l’altro, che nessuno dei consulenti tecnici l’aveva visitata. Il 19 gennaio 2008, il G.I.P. presso il Tribunale di Taranto decise di archiviare definitivamente il caso ritenendo non sufficientemente provato il nesso di causalità tra le emissioni dello stabilimento I.L.V.A. e i casi di malattia e decessi nella zona.

Infine, sempre sul caso “I.LV.A.” si ricorda che il 26 settembre 2013 la Commissione europea ha aperto una procedura d’infrazione contro l’Italia per il mancato controllo delle emissioni tossiche generate da tale stabilimento.

Il Governo italiano dovrà ora rispondere alle domande della C.E.D.U.

Successivamente, anche i ricorrenti avranno la possibilità di presentare le loro osservazioni e, una volta completata questa fase procedurale, la C.E.D.U. sarà in grado di pronunciarsi sul caso.

Le ripercussioni della pronuncia della C.E.D.U. saranno rilevanti, essendo in gioco il diritto alla vita, in primis, quello della prima ricorrente, ma anche quello di tutti i tarantini, i quali vivono sulla loro pelle, da anni, un gravissimo inquinamento ambientale.

(Testo redatto in collaborazione con la dott.ssa Alessia Valentino)

La C.E.D.U. condanna l’Ucraina perché responsabile della morte di un detenuto malato di A.I.D.S., deceduto subito dopo la sua scarcerazione

carcereStrasburgo, 25 aprile 2013 – Con sentenza del 14 marzo 2013 la C.E.D.U., nel caso Salakhov e Islyamova c. Ucraina (ricorso n. 28005/08), ha accertato la violazione degli articoli 2 e 3, nonché dell’art. 34, della Convenzione da parte dell’Ucraina per la morte di un detenuto affetto da HIV, avvenuta a breve distanza dal suo rilascio.

Il ricorso fu presentato inizialmente dal signor Linar Irekovich Salahkov, cittadino ucraino  (il primo ricorrente), il quale decedette in corso di causa. Nel giudizio subentrò quindi la madre, la signora Aliya Fazylovna Islyamova (la seconda ricorrente).

La vicenda del primo ricorrente ha inizio il 20 novembre 2007, quando fu arrestato con l’accusa di  aver rapinato un telefono cellulare ad un conoscente. Secondo quanto sostenuto dalla seconda ricorrente, il primo ricorrente informò immediatamente l’autorità di polizia ucraina di essere malato di A.I.D.S., esprimendo anche la propria preoccupazione che la sua salute avrebbe potuto peggiorare a causa della detenzione.

Dalla data del suo arresto e sino alla scarcerazione, avvenuta il 4 agosto 2008, il primo ricorrente fu alternativamente detenuto in carcerazione preventiva nei centri di detenzione di Bakhchysaray (c.d. “ITT”), e di Sinferopoli (c.d. “SIZO”)..

Con sentenza del 4 luglio 2008, il Tribunale di Bakhchysaray derubricò il reato a frode, condannando il primo ricorrente al pagamento della sola pena pecuniaria per un ammontante di circa 115 euro. Il ricorrente fu quindi rilasciato. La carcerazione preventiva ebbe una durata di oltre otto mesi.

Il primo ricorrente decedette il 2 agosto 2008, a meno di un mese dal suo rilascio.

Durante tutto il periodo di carcerazione preventiva, le condizioni di salute del primo ricorrente peggiorarono progressivamente.

Con l’aggravarsi delle condizioni di salute, il primo ricorrente fu trasferito presso il locale ospedale, ove, il 5 giugno 2008, quindi dopo oltre sei mesi dall’arresto, gli fu diagnosticato l’A.I.D.S. al quarto stadio di latenza clinica. In quell’occasione, il medico definì le condizioni del primo ricorrente come “moderatamente serie”.

Le contestuali e plurime richieste di scarcerazione per motivi di salute formulate dal legale del primo ricorrente furono sistematicamente respinte dal locale Tribunale di Bakhchysaray.

In considerazione del grave e rapido peggioramento delle condizioni di salute, i ricorrenti adirono in via d’urgenza la CEDU, che, in applicazione dell’art. 39 del Regolamento, invitò il Governo ucraino a trasferire immediatamente il ricorrente in una struttura ospedaliera idonea alla cura della sua grave patologia.

Dopo alcuni giorni, il ricorrente fu ricoverato in ospedale dove, seppur gravemente malato, fu ammanettato al letto. Il ricorrente fu quindi trasferito nel centro medico del “SIZO”, dove, pur essendo quasi in fin di vita, continuò ad essere ammanettato al letto.

Dopo la morte del primo ricorrente, la madre e seconda ricorrente denunciò che la mancanza di cure mediche tempestive ed adeguate durante il periodo di detenzione del figlio erano state la causa del decesso.

Secondo un’inchiesta condotta da un’apposita Commissione istituita dal Ministero della Salute ucraino, risultò che il deterioramento delle condizioni di salute del primo ricorrente era attribuibile al ritardo nelle cure prestate.

Le indagini condotte dalle autorità interne non portarono comunque ad identificare alcuna responsabilità penale né tra il personale dei due centri di detenzione, né tantomeno tra il personale medico dell’ospedale che aveva preso in cura il primo ricorrente, vuoi anche per la scarsissima documentazione medica esistente.

I ricorrenti hanno eccepito la violazione del diritto alla salute, all’integrità psico-fisica e alla vita del primo ricorrente, nonché l’essere stati sottoposti a trattamenti inumani e degradanti, in violazione degli art. 2 e 3  della Convenzione.

Quanto alla lamentata violazione dell’articolo 3 della Convenzione (divieto di trattamento inumano e degradante), la C.E.D.U. ha ribadito che gli Stati hanno l’obbligo di garantire ai detenuti le stesse cure, mediche e psico-sociali, che vengono assicurate a tutti gli altri membri della comunità (Kudla c. Polonia) e che la mancanza di cure adeguate costituisce un trattamento inumano e degradante.

Nel caso di specie, la C.E.D.U. ha osservato che pur sollecitate, non sono state fornite le cure mediche necessarie. Secondo la C.E.D.U., la pressoché totale assenza di documentazione medica è indicativa del mancato assolvimento da parte dello Stato degli obblighi di protezione derivanti dall’art. 3 della Convenzione.

Quanto all’adeguatezza delle cure mediche ricevute in ospedale, la C.E.D.U. ha ritenuto  lo Stato ucraino responsabile perché i medici hanno sottostimato la gravità delle condizioni di salute del ricorrente, rifiutando il ricovero urgente. Anche sotto questo profilo, la C.E.D.U. ha ritenuto che vi sia stata violazione dell’art 3 della Convenzione.

Quanto all’ammanettamento al letto di degenza, la C.E.D.U. ha ritenuto che, stante il grave stato di debilitazione fisica del primo ricorrente, tale trattamento abbia costituito un trattamento inumano e degradante.

Sotto il profilo dell’articolo 2 della Convenzione (diritto alla vita), la C.E.D.U. richiamandosi alla propria consolidata giurisprudenza, ha ribadito che tale norma deve essere interpretata ed applicata in modo da garantire una tutela in concreto ed effettiva del diritto alla vita (Mc Cann e altri c. Regno Unito). Tale norma pone quindi a carico delle autorità pubbliche l’obbligo di adottare preventivamente misure concrete per proteggere l’individuo (Osman c. Regno Unito).

Nel caso di specie la C.E.D.U. ha esaminato la compatibilità della detenzione con lo stato di salute del primo ricorrente, concludendo che alcun parametro esaminato – le condizioni mediche, l’adeguatezza delle cure e la proporzionalità della misura restrittiva adottata,  fosse stato rispettato con lo stato di detenzione del primo ricorrente. La C.E.D.U. ha quindi ritenuto che vi sia stata violazione dell’articolo 2 della Convenzione sotto il profilo sostanziale.

La C.E.D.U. ha ritenuto infine che vi sia stata violazione dell’articolo 2 della Convenzione anche sotto il profilo procedurale, in quanto le indagini compiute dalle autorità pubbliche interne non sono state sufficientemente adeguate, imparziali e indipendenti.

La C.E.D.U. ha ritenuto che vi sia stata violazione dell’articolo 3 della Convenzione anche nei confronti della seconda ricorrente per il perdurante stato di sofferenza mentale, angoscia e preoccupazione che è stata costretta a vivere a fianco del primo ricorrente.

Infine, la C.E.D.U. ha ritenuto che vi sia stata violazione dell’articolo 34 della Convenzione, in quanto lo Stato ucraino non ha prontamente eseguito la misura cautelare indicata ai sensi dell’articolo 39 del Regolamento.

La CEDU ha condannato lo Stato ucraino a risarcire alla seconda ricorrente 50.000 euro a titolo di risarcimento quale erede del primo ricorrente deceduto e 10.000 euro a titolo di risarcimento dei danni morali subiti personalmente. Le spese legali sono state liquidate in 925 euro.

Si noti che i principi sanciti in questa sentenza sono applicabili a tutti gli Stati contraenti della Convenzione e pertanto anche allo Stato italiano.