Traffico di esseri umani, la CEDU condanna Cipro e Russia per non aver protetto una cittadina russa. Violati gli articoli 2, 4 e 5 della Convenzione

Strasburgo, 10 gennaio 2010 – Con sentenza emessa il 7 gennaio 2010, la CEDU ha deciso nel caso Rantsev c. Cipro e Russia (ricorso n. 25965/04) accertando all’unanimità la violazione dell’articolo 2 (diritto alla vita) da parte di Cipro per mancanza di indagine effettiva e non violazione di tale articolo da parte della Russia, la violazione dell’articolo 4 (proibizione della schiavitù e del lavoro forzato) da parte di Cipro e Russia e violazione dell’articolo 5 (diritto alla libertà e sicurezza) da parte di Cipro.

La vicenda si svolge a Cipro e riguarda una giovane cittadina russa di vent’anni, entrata in quel Paese con un visto d’artista e deceduta in circostanze poco chiare, dopo essere caduta da un balcone di un’abitazione privata. Ha presentato ricorso il padre della giovane vittima.

La CEDU in questo caso specifico ricorda poi che il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi artistici ha celato il traffico di esseri umani per lo sfruttamento della prostituzione.

A mio avviso questa pronuncia è interessante per due ragioni.

Innanzitutto perché la CEDU prende posizione, dando un quadro esaustivo degli strumenti nazionali e internazionali per combattere la tratta di esseri umani e contribuisce, con il proprio specifico strumento, a sanzionare questo fenomeno, equiparabile alla riduzione in schiavitù. L’art. 4 della Convenzione è pertanto pienamente applicabile.

In secondo luogo, questa pronuncia e in particolare gli articoli su cui la CEDU si pronuncia, potranno essere uno strumento giuridico per altri casi  analoghi, dove dietro il rilascio di permessi di soggiorno si cela lo sfruttamento della prostituzione, ovvero dove le autorità, pur sapendo della riduzione in schiavitù di persone particolarmente vulnerabili non contrastano nel modo adeguato tale fenomeno.

È di qualche giorno fa la notizia di una rivolta a Rosarno da parte di immigrati sfruttati per la raccolta stagionale in Calabria e arrivati in Italia attraverso il traffico dell’emigrazione clandestina africana. Queste persone vivono in condizioni disumane, in baracche puzzolenti e in condizioni igieniche spaventose. Esse hanno inoltre subito e subiscono attacchi e aggressioni armate da parte di malviventi legati alla criminalità organizzata. Tali condizioni sono conosciute da diverso tempo, come dimostrano il rapporto del 2008 di MSF, Una Stagione all’Inferno, e altri articoli di denuncia. Tuttavia le autorità pubbliche sono rimaste e sembrano rimanere colpevolmente assenti nel combattere questo sfruttamento inumano e indegno e nel proteggere queste persone. Penso sia possibile a questo punto ipotizzare, facendo le opportune distinzioni, la violazione della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo quantomeno per quanto riguarda l’art. 4.

Tornando ora alla vicenda del caso Rantsev c. Cipro e Russia, avviene che la giovane vittima, arrivata a Cipro il 5 marzo 2001, inizia a lavorare il 16 marzo 2001 successivo come “artista” in un cabaret. Ma dopo tre giorni lascia il lavoro e l’alloggio, lasciando un biglietto dove dichiara di tornare in Russia. Il direttore del cabaret la ritrova in una discoteca a Limassol dodici giorni più tardi. L’uomo impone alla giovane di seguirlo presso il Commissariato di Polizia di Limassol, dove si presenta il 28 marzo 2001 verso le 4 del mattino. L’uomo chiede ai funzionari di polizia che la giovane venga denunciata per immigrazione illegale e venga quindi incarcerata per essere espulsa. L’uomo giustifica la sua richiesta affermando che così avrebbe potuto rimpiazzare la giovane nel proprio cabaret. I funzionari di polizia, dopo una serie di accertamenti, dichiarano che la giovane non sembra essere irregolare e pertanto si rifiutano di incarcerarla. I funzionari di polizia chiedono quindi all’uomo di accompagnare la giovane fuori dal posto di polizia e di ritornare con la stessa nel corso della mattinata per gli ulteriori accertamenti sulla sua condizione di immigrata. L’uomo e la giovane lasciano il posto di polizia verso le 5 e venti. Arrivano in un appartamento privato e la giovane viene alloggiata in una camera al sesto piano dell’edificio. Poco dopo, alle 6 e 30 la giovane viene trovata morta sulla strada, precipitata dal balcone dell’appartamento al sesto piano dove si trovava. Legato alla ringhiera del balcone un lenzuolo.

Si apre un’indagine. Vengono sentite come testimoni le persone presenti nell’appartamento e i poliziotti in servizio presso il Commissariato dove si era presentato l’uomo con la vittima. L’autopsia accerta che le ferite riportate dalla vittima sono dovute alla caduta dal sesto piano, causa della morte. Il padre della vittima, sopraggiunto nel frattempo, si reca al Commissariato di polizia di Limassol chiedendo di partecipare alla procedura giudiziaria. Il 27 dicembre 2001 si tiene un’udienza, dove il Tribunale dichiara che la giovane è deceduta in circostanze poco chiare per un possibile incidente, nel tentativo di fuggire dall’appartamento dove si trovava, escludendo qualsiasi altra ipotesi criminosa.

Il corpo della vittima viene riportato in Russia e il padre chiede alle autorità di effettuare un’altra autopsia. Il secondo esame autoptico mette in luce che la morte della giovane è avvenuto in circostanze non chiare e che è necessaria un’ulteriore indagine. Le autorità competenti russe chiedono a quelle cipriote un prosieguo dell’inchiesta e in particolare l’apertura di una procedura penale per la morte della giovane, chiedendo che il padre della vittima venga autorizzato a partecipare effettivamente.

Nell’ottobre 2006 le autorità cipriote informano quelle russe che la decisione sulla morte della giovane era stata adottata il 27 dicembre 2001 e che tale pronuncia è da considerarsi definita. Il ricorrente chiede che venga svolta un’indagine effettiva sulle cause della morte della figlia.

Il ricorrente, presentando ricorso alla CEDU ancora nel 2004, ha eccepito la violazione degli articoli 2, 3, 4, 5 e 6 della Convenzione. Si lamenta in particolare della qualità delle indagini svolte dalle autorità cipriote sulla morte di sua figlia e ritiene che la Polizia cipriota non abbia preso alcuna misura idonea a proteggere la figlia. Inoltre le autorità cipriote non hanno fatto nulla per perseguire le persone responsabili del decesso e dei maltrattamenti a cui è stata sottoposta la figlia. Sotto il profilo degli articoli 2 e 4 il ricorrente ha ritenuto che le autorità russe non hanno svolto alcuna indagine sul traffico di esseri umani di cui sua figlia è stata vittima. Inoltre le autorità russe non hanno adottato alcuna misura per proteggere la figlia dal pericolo del traffico di esseri umani. Sotto il profilo dell’articolo 6, il ricorrente ha eccepito il diniego di accesso ad un tribunale a Cipro e che il procedimento sia stato iniquo.

Nel corso del procedimento, il Governo cipriota ha presentato una dichiarazione unilaterale ai sensi dell’art. 37 della Convenzione, riconoscendo di aver violato tutti gli articoli invocati dal ricorrente. La CEDU ha comunque ritenuto di dover esaminare ugualmente il caso, allo scopo di salvaguardare e sviluppare le norme della Convenzione. Per la CEDU l’interpretazione e l’applicazione dell’art. 4 della Convenzione ai casi riguardanti il traffico di esseri umani è stato di fondamentale importanza per esaminare il caso e consentire cosi il rispetto dei diritti fondamentali in generale.

Sulla ricevibilità, la CEDU ha ritenuto che respingere la tesi prospettata dal Governo russo secondo cui i fatti del ricorso esulano dalla giurisdizione della Russia e comunque lo Stato non ne è responsabile. La CEDU ha constatato che se si è trattato di traffico di esseri umani questo è certamente iniziato in territorio russo e pertanto le violazioni formulate dal ricorrente sono state dichiarate ricevibili.

Sulla violazione del diritto alla vita, tutelato dall’art. 2 della Convenzione, la CEDU ha ritenuto che Cipro non potesse prevedere gli eventi che hanno portato alla morte della giovane e che pertanto non le autorità cipriote non erano tenute ad adottare misure concrete per prevenire il pericolo che minacciava la vita dalla vittima.

Tuttavia, l’inchiesta penale condotta dalle autorità cipriote ha avuto una serie di irregolarità essendovi state divergenze tra le deposizioni dei testimoni che non sono state chiarite; non è stata adottata nessuna misura volta a chiarire le strane circostanze della morte della giovane; la data d’udienza in cui è stato chiuso il caso no è stata notificata al ricorrente, il quale non ha potuto pertanto assistervi; infine, nonostante i fatti risalgano al 2001 non sono mai stati chiariti. Conseguentemente vi è stata violazione dell’art. 2 della Convenzione da parte ti Cipro perché le autorità competenti non hanno condotto un’indagine effettiva sulle circostanze della morte della giovane.

Per quanto riguarda la Russia, la CEDU ha concluso per la non violazione dell’art. 2 della Convenzione, in quanto le autorità russe non avevano l’obbligo di condurre un’indagine sulla morte della giovane, avvenuta al di fuori della sua giurisdizione. Inoltre le autorità russe hanno collaborato con le autorità cipriote a cui hanno chiesto diverse volte di indagare sul caso.

Sulla violazione dell’art. 3 della Convenzione riguardante i maltrattamenti subiti dalla giovane prima del suo decesso, la CEDU ha ritenuto di esaminare questo aspetto sotto il profilo dell’art. 4, che prevede il divieto della riduzione in schiavitù e al lavoro forzato. Secondo la CEDU infatti i maltrattamenti sono collegati al traffico e alla sfruttamento della prostituzione di cui la giovane è stata vittima.

Sull’assenza di protezione contro il traffico di esseri umani per il caso di specie la CEDU ha tenuto conto delle osservazioni presentate da due organizzazioni non governative, la Interrights e l’AIRE, dove si afferma che la definizione moderna di schiavitù comprende casi come quello in esame, dove la vittima viene sottoposta a sevizie e coercizione che danno agli aguzzini un controllo totale sulla vittima.

La CEDU sottolinea inoltre che come la schiavitù, il traffico di esseri umani, tenuto conto della sua natura e dello scopo di sfruttamento che persegue, suppone l’esercizio di un potere comparabile al diritto di proprietà. I trafficanti vedono l’essere umano come un bene che si mercanteggia e a cui vengono imposti dei lavori forzati. Tali individui devono sorvegliare strettamente le attività delle vittime che spesso non possono andare dove vogliono. Ricorrono alla violenza e alle minacce.

Secondo la CEDU l’art. 4 vieta questo tipo di traffico e Cipro ha violato le obbligazioni positive nascenti da tale disposizione per due motivi. In primo luogo per non aver adottato un sistema legislativo e amministrativo idoneo alla lotta contro il traffico di esseri umani. In secondo luogo perché la polizia cipriota non ha adottato alcuna misura per proteggere la giovane da tale traffico, quando le circostanze potevano legittimamente far pensare che la stessa ne fosse vittima. La CEDU non ha ritenuto necessario verificare se l’indagine fosse stata effettiva avendo già deciso della sua inadeguatezza con l’esame dell’art. 2 della Convenzione.

Per quanto riguarda la Russia, la CEDU ha ritenuto che via stata violazione dell’art. 4 della Convenzione, perché le autorità competenti non hanno adottato alcuna misura per individuare i trafficanti di cui la giovane è stata vittima.

Quanto alla privazione di libertà, la CEDU ha ritenuto che vi è stata violazione da parte di Cipro dell’art. 5 § 1 della Convenzione, in quanto la giovane è stata detenuta irregolarmente per circa un’ora presso il Commissariato di Polizia e quindi ristretta arbitrariamente presso un’abitazione privata per circa un’ora e a livello nazionale non vi è alcuna norma che giustifichi tali misure.

La CEDU ha respinto le altre violazioni lamentate dal ricorrente.

Ai sensi dell’art. 41 della Convenzione, la CEDU ha disposto che Cipro risarcisca al ricorrente la somma di 40.000 euro per danni morali e 3.150 euro per spese e competenze di procedura. La Russia deve invece corrispondere al ricorrente la somma di 2.000 euro per danni morali .

Il ritardo nella liberazione di un cittadino bosniaco dal centro di espulsione di Ponte Galeria viola l’articolo 5 § 1 della Convenzione: così decide la CEDU nel caso Hokic e Hrustic c. Italia

Strasburgo, 29 dicembre 2009 – Con sentenza del 1° dicembre 2009, la CEDU ha deciso nel caso Hokic e Hrustic c. Italia, accertando la violazione dell’art. 5 § 1 della Convenzione. I ricorrenti hanno introdotto un ricorso il 25 gennaio 2005 lamentando la violazione degli articoli 3, 5 e 8 della Convenzione riguardo alla regolarità della loro detenzione sia in vista dell’espulsione che successivamente  all’annullamento dei decreti di espulsione. Il 25 aprile 2008, il ricorso è stato comunicato al Governo.

I ricorrenti sono una coppia di origine rom originari della Bosnia Erzegovina che all’epoca dei fatti vivevano a Roma con i loro figli in un campo nomadi.

I fatti della vicenda posso sinteticamente riassumersi così.

L’11 gennaio 2005, le forze di polizia si presentano al campo, dove trovano i due ricorrenti sprovvisti di valido permesso di soggiorno. I ricorrenti vengono portati in Questura a Roma, dove viene notificato a ciascuno un decreto di espulsione. Tale provvedimento è fondato su due motivi: in primo luogo gli interessati, dopo il loro arrivo in Italia, non hanno domandato ed ottenuto un permesso di soggiorno e in secondo luogo soggiornano in Italia irregolarmente  essendosi sottratti ai controlli di frontiera.

Lo stesso giorno, l’11 gennaio 2005, il Questore ordina il trattenimento dei due ricorrenti presso il centro di Ponte Galeria.

Il 14 gennaio 2005, il Giudice di Pace di Roma convalida gli ordini di trattenimento.

Il 2 febbraio 2005 i ricorrenti presentano ricorso al Giudice di Pace opponendosi ai decreti di espulsione emessi nei loro confronti. I ricorrenti espongono che tali decreti hanno motivazioni contraddittorie che non permettono di comprendere il motivo dell’espulsione. Affermano inoltre di aver ottenuto tempo addietro un permesso per motivi umanitari poiché scappati dalla guerra nei Balcani e che il Comune di Roma conoscenva questo fatto, dato che era stato organizzato un censimento nel 1995. Il permesso di soggiorno per motivi umanitari dimostra inoltre che gli stessi non erano entrati in Italia sottraendosi al controllo alle frontiere.

Il 7 febbraio 2005 il Giudice di Pace di Roma proroga di un mese la detenzione dei ricorrenti.

Il 15 febbraio la ricorrente viene rimessa in libertà per ragioni di salute e il 24 febbraio 2005 il Giudice di Pace annulla il decreto di espulsione emesso nei confronti di quest’ultima. Secondo il Giudice di Pace il decreto di espulsione è da ritenersi illegittimo perché contraddittorio in quanto fa riferimento al fatto che la ricorrente non aveva chiesto un permesso di soggiorno una volta entrata in Italia, cosa non vera dato che la stessa aveva ottenuto un permesso di soggiorno per motivi umanitari, scaduto poi nel 1997.

Il 22 febbraio 2005 il Giudice di Pace annulla anche il decreto di espulsione emesso nei confronti del ricorrente con le stesse motivazioni e ordina che lo stesso venga rimesso in libertà. Tale decisione deve essere comunicata alle parti ai termini dell’art. 134 del codice di procedura civile ed è depositata in Cancelleria e comunque risulta essere stata depositata quello stesso giorno. Tuttavia la decisione viene comunicata all’ufficio stranieri della Questura di Roma solo il 3 marzo 2005. Quel giorno il ricorrente è ancora detenuto presso il centro di trattenimento di Ponte Galeria. Solo dopo una missiva dell’avvocato del ricorrente alla Questura di Roma il ricorrente è rimesso in libertà, questo alle otto di sera.

La legislazione interna nazionale applicabile al caso in esame richiamata dalla CEDU nel caso di specie è quella contenuta nel testo unico sull’immigrazione, il decreto legislativo n. 286 del 1998 poi modificato dalla legge n. 189 del 2002, richiamando in particolare gli articoli 13 e 14 in tema di espulsione degli stranieri.

Riguardo alla violazione dell’art. 5 della Convenzione, i ricorrenti sollevano due eccezioni distinte. La prima riguarda la detenzione in vista dell’espulsione, essendo il decreto di espulsione stato annullato successivamente. La seconda riguarda invece la rimessione in libertà tardiva del ricorrente.

Riguardo alla detenzione in vista dell’espulsione, la CEDU ha ritenuto di dover esaminare gli ordini di trattenimento del Questore e in particolare se i decreti di espulsione abbiamo costituito una base legale per la privazione di libertà subita dai ricorrenti. La CEDU chiarisce subito che l’annullamento successivo non incide, in quanto tale, sulla legittimità della detenzione nella fase antecedente alla convalida. La CEDU precisa quindi che per determinare se l’art. 5 § 1 della Convenzione sia stato rispettato nel caso di specie, deve essere fatta una distinzione tra i titoli di detenzione manifestamente invalidi, come quelli emessi da un Tribunale al di fuori delle proprie competenze, e i titoli restrittivi della libertà che sono prima facie validi ed efficaci fino al momento in cui vengono annullati da un’altra giurisdizione interna (§ 23).

La CEDU fa quindi presente che nel caso di specie i ricorrenti non hanno eccepito che il Questore di Roma abbia agito al di fuori delle proprie competenze.

In effetti dal testo della sentenza non è dato di sapere il contenuto dell’ordine di trattenimento emesso dal Questore.

Su questo punto apro una breve parentesi, ricordando che ai sensi dell’art. 14 del Testo unico sull’immigrazione stabilisce che il Questore, nel caso in cui non possa effettuare l’effettivo accompagnamento alla frontiera dello straniero clandestino, mediante l’utilizzo della forza pubblica, può disporre che lo stesso sia trattenuto presso un centro di permanenza temporanea per il tempo necessario alla sua espulsione. Il trattenimento è disposto dal Questore nel caso si debba procedere ad accertamenti in ordine alla identità e nazionalità dello straniero, ovvero al soccorso dello straniero, all’acquisizione di documenti di viaggio ovvero si debba attendere la disponibilità di un vettore.

Sulla base legale, la CEDU si limita a riferire che secondo il diritto interno il Questore aveva il potere di trattenere i ricorrenti anche se non chiarisce qual è il motivo a cui fa riferimento il Questore per limitare la libertà dei ricorrenti.

La CEDU ricorda quindi che i decreti di espulsione sono stati annullati dal Giudice di Pace in quanto si è constatato che i ricorrenti inizialmente titolari di un permesso di soggiorno, dopo la scadenza sono rimasti irregolari sul territorio italiano. Secondo la CEDU questa situazione non può ritenersi come una grave e manifesta irregolarità secondo la propria giurisprudenza (si veda mutatis mutandis, Liu e Liu c. Russia, no 42086/05, § 81, 6 dicembre 2007).

Secondo la CEDU le autorità italiane non hanno agito in mala fede dato che è sorto un malinteso che ha portato a credere che i ricorrenti fossero da sempre in situazione irregolare (si veda in merito Benham c. Regno Unito, sentenza del 10 giugno 1996). Questo malinteso non può quindi permettere di dire che la detenzione fosse illegittima o che i decreti di espulsione fossero prima facie, invalidi. Conseguentemente la CEDU conclude che questa prima eccezione è manifestamente non fondata e pertanto la rigetta ai sensi dell’articolo 35 §§ 3 e 4 della Convenzione.

Riguardo alla privazione di libertà dopo l’annullamento del decreto di espulsione, la CEDU accerta invece la violazione dell’art. 5 §1 della Convenzione.

Il ricorrente fa presente che la sua liberazione è avvenuta il 3 marzo 2005 alle 8 di sera, mentre la decisione che ordinava la sua liberazione è stata adottata la mattina del 1° marzo 2005 e quindi oltre 48 ore più tardi.

La CEDU richiama i principi generali, ricordando innanzitutto che le limitazioni al diritto alla libertà statuito dall’articolo 5 § 1  sono tassative e la loro interpretazione è rigorosa, ciò allo scopo di assicurare che nessuno venga privato della libertà in modo arbitrario (si veda Labita c. Italia [GC], no 26772/95, § 170).

La CEDU ricorda inoltre di avere il compito di esaminare con particolare attenzione tutte le eccezioni che vengono sollevate riguardo al ritardo nell’esecuzione di una decisione di rimessione in libertà (si veda Bojinov c. Bulgaria, no 47799/99, § 36, sentenza del 28 ottobre 2004). La CEDU pur ammettendo che spesso sia inevitabile il decorso di un certo lasso di tempo nel dare esecuzione ad una decisione di rimessione in libertà, sottolinea che tale termine deve essere ridotto al minimo (si veda Giulia Manzoni c. Italia, sentenza del 1° luglio 1997,  § 25 in fine). Inoltre deve essere il Governo a fornire un quadro dettagliato di tutti i fatti pertinenti al rilascio di una persona (si veda Nikolov c. Bulgaria, no 38884/97, § 80, sentenza del 30 gennaio 2003).

Passando all’esame del caso di specie la CEDU fa presente che il provvedimento di liberazione del ricorrente è stato depositato in cancelleria il 1° marzo 2005 e che la sua liberazione è avvenuta il 3 marzo successivo alle 8 di sera. Inoltre la sola formalità prevista dopo il deposito della decisione del Giudice di Pace era la comunicazione alle parti. La CEDU sottolinea, tra le altre cose, che tra la decisione del Giudice di Pace, avvenuta il 22 febbraio 2005 e il suo deposito, avvenuto il 1° marzo 2005, sono decorsi ben sei giorni.

Per tali motivi, la CEDU ha dichiarato che vi è stata violazione dell’art. 5 § 1 della Convenzione.

Quanto alle altre violazioni eccepite dai ricorrenti e riguardanti gli articoli 3 e 8 della Convenzione, la CEDU li ha respinti o perché i ricorrenti non potevano più pretendersi vittime ovvero perché non avevano sufficientemente fondato l’asserita violazione degli articoli convenzionali invocati.

La CEDU ha riconosciuto 1.500 euro a titolo di danno morale al solo ricorrente.

Il caso MEDVEDYEV c. Francia mette in discussione davanti alla CEDU lo status del Pubblico Ministero e la sua indipendenza dal potere esecutivo

Strasburgo, 10 maggio 2009 – Il 6 maggio 2009, la CEDU ha tenuto udienza in Grande Camera per esaminare il caso Medvedyev e altri c. Francia (ricorso no 3394/03).

Su tale vicenda la CEDU aveva già deciso con sentenza emessa in data 10 luglio 2008 (qui la versione in francese e in inglese), ma su richiesta di entrambe le parti, la causa era stata rinviata in Grande Camera.

Per la Francia questa sentenza è indubbiamente di una certa rilevanza in quanto riguarda la figura e l’indipendenza del procuratore della Repubblica. Ricordo in proposito che per taluni la Costituzione della V Repubblica ha dato ai procuratori uno status ambiguo, in quanto sottoposti direttamente al potere politico e tuttavia ritenuti indipendenti da tale potere, dato che “in udienza hanno libertà di parola”. In Francia, a partire dal 2002 si è assistito ad un fenomeno che ha portato il potere esecutivo a rinforzare nettamente la propria influenza gerarchica sui procuratori. L’attuale governo in carica ha inoltre intenzione di riformare il sistema giudiziario, dividendo il corpo giudiziario in due, da una parte i giudici, indipendenti, e dall’altra i procuratori.

Esaminando la vicenda, essa riguarda diversi ricorrenti, cittadini ucraini, rumeni, greci e cileni, i quali facevano parte dell’equipaggio del cargo Winner battente, all’epoca dei fatti, bandiera cambogiana.

In un’operazione di lotta internazionale contro il traffico di stupefacenti, le autorità francesi erano venute a conoscenza che la nave Winner poteva trasportare quantità considerevoli di droga. Il 13 giugno 2002, la marina francese decideva di intercettare la Winner in alto mare, al largo delle isole di Capo Verde, e di riportarla a Brest, in Francia, dove arrivava il 26 giugno.

I ricorrenti si sono lamentati davanti alla CEDU di essere stati arbitrariamente privati della loro libertà per essere stati detenuti sulla Winner per tredici giorni sotto la sorveglianza militare francese e successivamente per altri due o tre giorni a Brest al loro arrivo. Ciò sarebbe avvenuto in contrasto con il diritto internazionale e in mancanza di controllo da parte dell’autorità giudiziaria. I ricorrenti hanno infatti affermato che vi era stata violazione dell’articolo 5 §§ 1 e 3 (diritto alla libertà e sicurezza) della Convenzione, che, nelle sue parti rilevanti, testualmente recita:

“1. Ogni persona ha diritto alla libertà e alla sicurezza. Nessuno può essere  privato  della  libertà,  se  non  nei  casi seguenti  e  nei modi  previsti  dalla  legge:

a)   se  è  detenuto  regolarmente  in  seguito  a  condanna  da  parte  di  un  tribunale competente;

b)   se si trova in regolare stato di arresto o di detenzione per violazione di  un  provvedimento  emesso,  conformemente  alla  legge,  da  un  tribunale  o  allo  scopo  di  garantire  l’esecuzione  di  un  obbligo  prescritto dalla legge;

c)   se è stato arrestato o detenuto per essere tradotto dinanzi all’autorità  giudiziaria competente, quando vi sono motivi plausibili di sospettare  che egli abbia commesso un reato o vi sono motivi fondati di ritenere  che sia necessario impedirgli di commettere un reato o di darsi alla  fuga dopo averlo commesso;

d)   d  se si tratta della detenzione regolare di un minore decisa allo scopo  di  sorvegliare  la  sua  educazione  oppure  della  sua  detenzione  regolare al fine di tradurlo dinanzi all’autorità competente;

e)   se  si  tratta  della detenzione  regolare  di  una  persona suscettibile  di  propagare una malattia contagiosa, di un alienato, di un alcolizzato,  di un tossicomane o di un vagabondo;

f)   se si tratta dell’arresto o della detenzione regolari di una persona per  impedirle di entrare illegalmente nel territorio, oppure di una persona  contro  la  quale  è  in  corso  un  procedimento  d’espulsione  o  d’estradizione.

(…)

3. Ogni persona arrestata o detenuta, conformememnte alle condizioni previste dal paragrafo 1.c del presente articolo, deve essere tradotta al più presto dinanzi ad un giudice o ad un altro magistrato autorizzato dalla legge ad esercitare funzioni giudiziarie e ha diritto di essere giudicata entro un termine ragionevole o di essere messa in libertà durante la procedura. La scarcerazione può essere subordinata a garanzie che assicurino la comparizione dell’interessato all’udienza”.

La CEDU aveva concluso accertando la violazione dell’art. 5 § 1 della Convenzione.

Secondo la CEDU,  la privazione della libertà non era avvenuta secondo le modalità previste dalla legge, questo perché era stata applicata una normativa che non  prevedeva espressamente alcuna ipotesi di privazione della libertà dei membri dell’equipaggio ne’ un controllo giudiziario a tale limitazione. Su questo secondo aspetto in particolare la CEDU ha ricordato che l’intervento del procuratore della Repubblica nel caso di specie non poteva essere sufficiente. Infatti secondo la CEDU, al procuratore della Repubblica manca la necessaria indipendenza dal potere esecutivo perché lo si possa considerare come un’autorità giudiziaria, cosi come lo prevede la sua giurisprudenza (§ 61).

Riguardo invece alla pretesa violazione dell’art. 5 § 3 della Convenzione, che impone che una persona arrestata venga tradotta “al più presto” davanti ad una autorità giudiziaria, la CEDU aveva ritenuto che per le particolari circostanze del caso, tale disposizione convenzionale non fosse stata violata.

Ricordo infine che la sentenza del 10 luglio 2008 si uniforma alla giurisprudenza della CEDU che sollecita  gli Stati membri a rinforzare le condizioni necessarie affinché i procuratori possano essere qualificati come magistrati (vedasi Schiesser c. Svizzera, (n. 7710/76), sentenza del 4 dicembre 1979 – qui la versione in francese e in inglese).

Ora tutto viene rimesso all’esame della Grande Camera. La CEDU dovrebbe emettere la sentenza entro l’anno 2009.