I discorsi dell’odio secondo la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo
“La tolleranza e il rispetto della dignità di tutti gli esseri umani costituiscono il fondamento di una società democratica e pluralista. Ne consegue che, in via di principio, si può considerare necessario, nelle società democratiche, sanzionare e cercare di prevedere tutte le forme di espressione che diffondono, incitano, promuovono o giustificano l’odio basato sull’intolleranza …” (Erbakan c. Turchia, sentenza del 6 luglio 2006, §56)
Strasburgo, 4 maggio 2014 – La Convenzione europea dei diritti dell’uomo si fonda su valori democratici e su un sistema istituzionale che ripudia l’estremismo.
La C.E.D.U., con la propria giurisprudenza, ha identificato un certo numero di forme di espressione che devono essere considerate offensive e contrarie alla Convenzione (specialmente il razzismo, la xenofobia, l’antisemitismo, il nazionalismo aggressivo, la discriminazione nei confronti delle minoranze e degli immigrati). In tal senso si è espresso anche il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, adottando la Raccomandazione n. R 97 (20) sui “discorsi dell’odio”.
La C.E.D.U. ha ritenuto opportuno distinguere tra un incitamento reale e serio all’estremismo e i diritti dei singoli, specialmente giornalisti e uomini politici, di esprimersi liberamente e di “offendere, scioccare o turbare” gli altri (si veda Handyside c. Regno Unito, 7 dicembre 1976, § 49).
Nella giurisprudenza elaborata dalla C.E.D.U. non esiste alcuna definizione universalmente riconosciuta dell’espressione “discorsi dell’odio”.
La giurisprudenza della C.E.D.U. ha comunque stabilito alcuni parametri che permettono di qualificare un “discorso dell’odio” al fine di escluderlo ogni tutela dalla libertà di espressione (articolo 10 della Convenzione) o ancora dalla libertà di riunione e associazione (articolo 11 della Convenzione).
La C.E.D.U. attua questa esclusione secondo due modalità previste dalla Convenzione:
a) applicando l’articolo 17 (divieto dell’abuso di diritto) della Convenzione quando lo scopo è l’odio e costituisce una negazione dei valori fondamentali sanciti dalla Convenzione o
b) applicando le limitazioni previste al paragrafo 2 degli articoli 10 e 11 della Convenzione (questa è la via prescelta quando il discorso, anche se d’odio, non è distruttivo dei valori fondamentali su cui si basa la Convenzione).
L’articolo 17 della Convenzione ha lo scopo di evitare di che strumentalizzando i principi convenzionali si possano svolgere attività o compiere atti che mirino alla distruzione dei diritti e delle libertà sanciti dalla Convenzione stessa.
Qui di seguito le pronunce più significative rese dalla C.E.D.U. sui “discorsi dell’odio” in tema razziale, religioso, d’orientamento sessuale e negazionista. Infine, relativamente ai regimi totalitari, alla politica e all’odio nazionale e incostituzionale.
I discorsi d’odio razziale
Vona c. Ungheria – 9 luglio 2013
Il ricorso riguardava lo scioglimento di un’associazione in ragione dei raduni e delle manifestazioni anti-rom organizzate dal movimento che essa aveva creato.
Non violazione dell’articolo 11 (libertà di riunione e di associazione) della Convenzione: la C.E.D.U. afferma che, come per i partiti politici, lo Stato è autorizzato a impiegare delle misure preventive contro le associazioni per proteggere la democrazia in caso di attacchi sufficientemente imminenti ai diritti altrui, tali da minare i valori fondamentali sui quali si fonda la società democratica e il suo funzionamento. Nel caso di specie, il movimento creato dall’associazione del ricorrente ha organizzato delle manifestazioni che diffondevano un messaggio di segregazione razziale e ha avuto un effetto intimidatorio sulla minoranza rom poiché si rifaceva al movimento nazista ungherese (le Croci frecciate).
Secondo la C.E.D.U., infatti, queste sfilate paramilitari hanno superato la mera espressione di un’idea offensiva o scioccante, protetta dalla Convenzione, tenuto conto della presenza fisica di un gruppo organizzato e minaccioso di attivisti. Pertanto, il solo modo di eliminare effettivamente la minaccia che il movimento rappresentava era quello di rimuovere il supporto organizzativo che l’associazione gli forniva.
Aksu c. Turchia – 15 marzo 2012 (Grande Camera)
Il ricorrente, di origine rom, lamentava che tre pubblicazioni sovvenzionate dal Governo (un’opera universitaria sui Rom e due dizionari) contenevano dei riferimenti e delle espressioni che riflettevano ostilità nei confronti della comunità rom.
Per quanto riguarda l’articolo 14 (divieto di discriminazione) della Convenzione: la C.E.D.U. ha ricordato che la discriminazione ai sensi dell’articolo 14 consiste nel trattare in maniera diversa e senza una giustificazione oggettiva e ragionevole persone che si trovano un una situazione similare. Il ricorrente non era riuscito a dimostrare che le pubblicazioni in questione avevano uno scopo o un effetto discriminatorio. Poiché, dunque, non vi era stata alcuna differenza di trattamento, la C.E.D.U. ha esaminato il ricorso unicamente con riferimento all’asserita violazione dell’articolo 8.
Non violazione dell’articolo 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare): la C.E.D.U. ha riscontrato che né il libro né i dizionari erano offensivi nei confronti dei rom. In particolare, essa ha ritenuto che le autorità turche avevano attuato tutte le misure necessarie per conformarsi all’obbligazione imposta loro dall’articolo 8 di proteggere in maniera effettiva il diritto del ricorrente al rispetto della sua vita privata in qualità di membro della comunità rom. Essa ha, inoltre, tenuto a segnale che sarebbe stato preferibile indicare nei dizionari che la definizione secondaria dal termine “Zingaro” – à savoir «radin» – era “peggiorativa” o “offensiva”, invece di limitarsi a qualificarla “metaforica”.
Féret c. Belgio – 16 luglio 2009
Il ricorrente è un deputato belga e presidente del partito politico Fronte nazionale/Nationaal Front in Belgio. Durante la campagna elettorale per questo partito, furono distribuiti numerosi tipi di volantini che divulgavano, in particolare, il messaggio di “opporsi all’islamizzazione del Belgio”, di “fermare la politica della pseudo-integrazione” e di “rinviare indietro i disoccupati extraeuropei”. Il ricorrente era stato condannato, per incitamento alla discriminazione razziale, ai lavori di pubblica utilità e all’ineleggibilità per dieci anni. Egli sosteneva che il suo diritto alla libertà di espressione era stato violato.
La C.E.D.U. ha riscontrato la non violazione dell’articolo 10 (libertà di espressione). Secondo la sua opinione, i discorsi del ricorrente rischiavano inevitabilmente di suscitare, soprattutto tra il pubblico meno informato, dei sentimenti di paura, di rifiuto e perfino di odio nei confronti degli stranieri. Il suo messaggio, diffuso nel periodo elettorale, aveva avuto una grande risonanza e costituiva certamente un incitamento all’odio razziale. Di conseguenza, la condanna del ricorrente era giustificata allo scopo di proteggere l’ordine pubblico e i diritti altrui, quelli, cioè, della comunità degli immigrati.
Leroy c. Francia – 2 agosto 2008
Il ricorrente è un disegnatore. Uno dei suoi disegni raffigurante l’attentato al World Trade Center è stato pubblicato il 13 settembre 2011 su un settimanale basco con la seguente didascalia: “L’abbiamo sognato tutti… Hamas l’ha fatto”. Essendo stato condannato a una multa per “apologia del terrorismo”, il ricorrente sosteneva che il suo diritto alla libertà di espressione era stato violato.
La C.E.D.U. ha riscontrato la non violazione dell’articolo 10 (libertà di espressione). Essa ha ritenuto che, con il suo disegno, il ricorrente glorificava la distruzione dell’imperialismo americano con la violenza, esprimeva la sua approvazione e la sua solidarietà morale con gli autori dell’attentato dell’11 settembre, giudicava positivamente la violenza perpetrata nei confronti di migliaia di civili e offendeva la dignità delle vittime. Nonostante la diffusione limitata del settimanale, la C.E.D.U. ha costatato che esso aveva suscitato delle reazioni che potevano far nascere degli episodi di violenza e dimostrato il suo impatto concreto sull’ordine pubblico dei Paesi Baschi.
Jersild c. Danimarca – 23 settembre 1994
Il ricorrente, di professione giornalista, aveva realizzato un reportage contenente degli estratti di un programma televisivo condotto da lui con membri di un gruppo giovanile chiamato “giacche verdi” che si erano espressi in maniera offensiva e dispregiativa nei confronti degli immigrati e dei gruppi etnici stabilitisi in Danimarca. Il ricorrente era stato condannato per complicità nella diffusione d’idee razziste. Egli sosteneva che il suo diritto alla libertà di espressione era stato violato.
La C.E.D.U. ha distinto tra, da una parte, i membri della comunità delle “giacche verdi” che hanno apertamente espresso delle idee razziste e, dall’altra parte, il ricorrente che ha cercato di esporre, analizzare e spiegare questo specifico gruppo di giovani e di trattare “gli aspetti specifici di una questione che preoccupava seriamente, già allora, il pubblico”. Il reportage, nel suo complesso, non perseguiva l’obiettivo di diffondere delle idee o opinioni razziste, ma d’informare il pubblico su una questione sociale. Perciò, la C.E.D.U. ha riscontrato la violazione dell’articolo 10 (libertà di espressione).
Si veda, inoltre: Glimmerveen et Haqenbeek c. Paesi Bassi, decisione della commissione europea dei diritti dell’uomo dell’11 ottobre 1979 (concernente un partito politico che si fonda sulla convinzione che è nell’interesse generale dello Stato che la sua popolazione sia etnicamente omogenea).
I discorsi d’odio religioso
Hizb Ut-Tahrir e altri c. Germania – 19 giugno 2012 (decisione sulla ricevibilità)
Il ricorso riguardava il divieto di svolgere la propria attività, in Germania, per un’associazione islamica che incitava al rovesciamento dei governi non islamici e all’istituzione di un califfato islamico.
La C.E.D.U., a maggioranza, ha dichiarato la richiesta irricevibile. Essa ha ritenuto, in particolare, che in virtù dell’articolo 17 (divieto dell’abuso di diritto) era impossibile desumere dalla Convenzione un diritto di esercitare un’attività finalizzata alla distruzione dei diritti e delle libertà riconosciute dalla Convenzione. L’associazione non poteva, dunque, invocare l’articolo 11 (libertà di riunione e associazione) per lamentarsi del divieto di svolgere la sua attività.
Si veda, inoltre: Kasymakhunov e Saybatalov c. Russia, sentenza del 14 marzo 2013, §§ 102-114.
Pavel Ivanov c. Russia – 20 febbraio 2007 (decisione sulla ricevibilità)
Il ricorrente aveva scritto e pubblicato una serie di articoli che descrivevano gli ebrei come la causa di ogni male in Russia. Egli li accusava di fomentare un complotto contro il popolo russo e il contenuto della sua proposta era d’impronta estremamente antisemita. Egli fu condannato per incitazione all’odio basato sull’etnia, la razza e la religione. Il ricorrente lamentava, in particolare, la violazione del diritto a un ricorso effettivo (articolo 13 della Convenzione). Egli sosteneva che la sua condanna si era basata su elementi contraddittori e contestava ai giudici russi di essersi rifiutati di prevedere la predisposizione di una perizia che avrebbe consentito di sostenere la sua tesi secondo la quale gli ebrei non costituivano una nazione. Invocando l’articolo 14 (divieto di discriminazione) egli sosteneva, inoltre, che era stato vittima di una discriminazione basata sulle sue convinzioni religiose.
La C.E.D.U. ha dichiarato il ricorso irricevibile. Poiché il ricorrente si lamentava, in sostanza, della violazione del suo diritto alla libertà di espressione garantito dall’articolo 10, essa ha ritenuto che avendo quest’ultimo cercato attraverso le sue pubblicazioni “di far odiare gli ebrei” e avendo incitato alla violenza nei confronti di un determinato gruppo etnico, non poteva beneficiare della protezione di cui all’articolo 10.
Norwood c. Regno Unito – 16 novembre 2004 (decisione sulla ricevibilità)
Il ricorrente aveva apposto sulla sua finestra un manifesto del Partito nazionalista britannico, al quale apparteneva, che rappresentava le Twin Towers in fiamme. Vicino all’immagine era posta una didascalia: “fuori l’Islam – proteggiamo il popolo inglese”, questo ha causato la sua condanna per attacco aggravato a un gruppo religioso. Il ricorrente sosteneva, in particolare, che il suo diritto alla libertà di espressione era stato violato.
La C.E.D.U. ha dichiarato il ricorso irricevibile. Essa ha ritenuto che un attacco così veemente, generalizzato, contro un gruppo religioso e che stabiliva un legame tra l’intero gruppo e un atto di terrorismo grave è contrario ai valori sanciti e garantiti dalla Convenzione tra cui la tolleranza, la pace sociale e la non discriminazione e che il ricorrente non poteva, dunque, beneficiare della protezione di cui all’articolo 10 (libertà di espressione).
Gündüz c. Turchia – 4 dicembre 2003
Il ricorrente ha sostenuto una setta islamista. Nel corso di una trasmissione televisiva, andata in onda in tarda serata, egli aveva fortemente criticato la democrazia qualificando “empie” le istituzioni contemporanee e laiche, criticando violentemente le nozioni di laicità e di democrazia e sostenendo apertamente la sharia. Egli era stato condannato per aver apertamente incitato il pubblico all’odio e all’ostilità sulla base di una distinzione fondata sull’appartenenza a una religione o a una setta. Il ricorrente riteneva che il suo diritto alla libertà di espressione era stato violato.
La C.E.D.U. ha costatato che il ricorrente, che esprimeva le idee estremiste della sua setta ben note al pubblico, partecipava attivamente a un acceso dibattito pubblico. Questo confronto pluralista cercava di presentare la setta e le sue idee anticonformiste, inclusa l’incompatibilità della loro concezione dell’Islam con i valori democratici, tema largamente dibattuto sui media turchi e che sollevava un problema d’interesse generale. La C.E.D.U. ha ritenuto che le esternazioni del ricorrente non potevano considerarsi un appello alla violenza o un “discorso dell’odio” fondato sull’intolleranza religiosa. Essa ha riscontrato la violazione dell’articolo 10 (libertà d’espressione).
Si veda, inoltre: W.P. e altri c. Polonia (ricorso n. 42264/98), decisione sulla ricevibilità del 2 settembre 2004.
I discorsi d’odio in ragione dell’orientamento sessuale
Vejdeland e altri c. Svezia – 9 febbraio 2012
Il ricorso riguardava la condanna dei ricorrenti per aver distribuito, in un istituto scolastico d’istruzione secondaria, un centinaio di volantini che i tribunali hanno ritenuto offensivi nei confronti degli omosessuali. I ricorrenti avevano distribuito in un liceo dei volantini redatti da un’associazione chiamata Gioventù nazionale e li avevano lasciati sopra o dentro gli armadietti degli studenti. I volantini contenevano, in particolare, delle dichiarazioni che dipingevano l’omosessualità come una “propensione alla devianza sessuale”, avente un “effetto moralmente distruttivo sui fondamenti della società” e come la causa della diffusione del virus HIV e dell’aids. I ricorrenti sostenevano che non avevano avuto l’intenzione di esprimere disprezzo nei confronti degli omosessuali in quanto gruppo e che la loro azione aveva come scopo quello di promuovere un dibattito sulla mancanza di oggettività nell’insegnamento dispensato nelle scuole svedesi.
La C.E.D.U. ha ritenuto che, pur non costituendo un appello diretto a degli atti d’odio, queste dichiarazioni avevano un carattere grave e pregiudizievole e ha sottolineato che la discriminazione fondata sull’orientamento sessuale è grave come quella fondata sulla razza, l’origine o il colore della pelle. Essa ha riscontrato la non violazione dell’articolo 10 (libertà di espressione), poiché l’ingerenza nel godimento del diritto alla libertà di espressione dei ricorrenti era stata necessaria in una società democratica per proteggere la reputazione e i diritti altrui.
I discorsi negazionisti
Garaudy c. Francia – 24 giugno 2003 (decisione sulla ricevibilità)
Il ricorrente, autore di un’opera intitolata I miti fondatori della politica israeliana, era stato condannato per negazione di crimini contro l’umanità, diffamazione pubblica contro un gruppo di persone, nella fattispecie, la comunità ebraica, e incitamento all’odio raziale. Egli sosteneva che il suo diritto alla libertà di espressione era stato violato.
Il ricorso è stato dichiarato irricevibile. La C.E.D.U. ha ritenuto che il contenuto dell’opera del ricorrente costituiva una negazione dell’Olocausto e ha ricordato che “la negazione dei crimini contro l’umanità è una delle forme più gravi di diffamazione razziale contro gli ebrei e d’incitazione all’odio nei loro confronti”. La C.E.D.U. ha affermato che l’opera che contestava la veridicità di fatti storici indubbiamente verificatisi non perseguiva alcuno scopo scientifico o storico, ma aveva il fine di riabilitare il regime nazional-socialista e di accusare di falsificazione storica le vittime stesse. La C.E.D.U. ha ritenuto che, essendo tali atti manifestamente incompatibili con i valori fondamentali sanciti dalla Convenzione, il ricorrente non poteva godere delle previsioni di cui all’articolo 10 (libertà di espressione).
Lehideux e Isorni c. Francia – 23 settembre 1998
I ricorrenti avevano scritto un testo, pubblicato sul quotidiano Le Monde, che dipingeva positivamente la figura del maresciallo Pétain, omettendo di menzionare la politica di collaborazione che egli aveva condotto con il regime nazista. Il testo terminava con un invito a due associazioni, aventi quale finalità sociale quello di difendere la memoria del maresciallo Pétain, a scrivere per ottenere la revisione del suo processo e della sua condanna avvenuta nel 1945 alla pena di morte e alla degradazione nazionale e ottenere la sua riabilitazione. In seguito al ricorso dell’associazione nazionale dei veterani della Resistenza, i due autori sono stati condannati per apologia dei crimini di guerra o di collaborazione con il nemico. Essi sostenevano che il loro diritto alla libertà di espressione era stato violato.
La C.E.D.U. ha riscontrato la violazione dell’articolo 10 (libertà di espressione). Essa ha rilevato che il testo in questione, per quanto polemico, non poteva essere considerato negazionista perché gli autori non si erano espressi in nome proprio, ma per le associazioni legalmente costituite e aventi già elogiato un uomo e una politica pro-nazismo.
Infine, la C.E.D.U. ha rilevato che gli eventi descritti nel testo si erano prodotti più di quarant’anni prima della pubblicazione del testo e che “con il senno di poi non sarebbe stato opportuno, quarant’anni dopo, applicare la stessa severità che si sarebbe applicata dieci o venti anni prima”.
Si vedano, inoltre: Honsik c. Austria, decisione della Commissione europea dei diritti dell’uomo del 18 ottobre 1995 (concernente una condanna per aver negato, in una pubblicazione, il genocidio perpetrato nella camere a gas dei campi di concentramento sotto il regime nazional-socialista); Marais c. Francia, decisione della Commissione del 24 giugno 1996 (concernente la pubblicazione in un periodico di un articolo che affermava l’improbabilità tecnica delle “presunte camere a gas”).
I discorsi ispirati da una dottrina totalitaria
Fondamentalismo islamico:
Refah Partisi (Partito della prosperità) e altri c. Turchia – 13 febbraio 2003 (Grande Camera)
Nel 1998, il Refah Partisi (Partito della prosperità) è stato sciolto in ragione del fatto che era diventato un “centro di attività contrarie al principio di laicità” e che numerosi atti e dichiarazioni dei suoi dirigenti e dei suoi membri consentivano di dedurre che alcuni obiettivi del partito, quali l’instaurazione della sharia e di un regime teocratico, fossero incompatibili con la concezione di una società democratica. Numerosi membri del Refah Partisi sostenevano che il loro diritto alla libertà di associazione era stato violato.
La C.E.D.U. ha costatato che gli atti e i discorsi del Refah Partisi rivelavano il suo progetto politico a lungo termine teso a instaurare un regime fondato sulla sharia e che il Rafah Partisi non escludeva di ricorrere alla forza. Secondo la C.E.D.U., le reali possibilità che il Refah Partisi aveva di mettere in atto il suo progetto costituivano un pericolo immediato per la democrazia e, di conseguenza, il suo scioglimento era giustificato. La C.E.D.U. ha riscontrato la non violazione dell’articolo 11 (libertà di riunione e associazione).
La C.E.D.U., in linea di principio, dichiara irricevibili, in ragione della loro incompatibilità con i valori sanciti dalla Convenzione, i ricorsi i cui autori s’ispirano a una dottrina totalitaria o esprimono delle idee che rappresentano una minaccia per l’ordine democratico e che rischiano di portare alla restaurazione di un regime totalitario.
(neo-)nazismo; nazional-socialismo:
Partito comunista tedesco c. Repubblica federale tedesca, ricorso n. 250/57, decisione della Commissione europea dei diritti dell’uomo del 20 luglio 1957; B.H., M.W., H.P., G.K. c. Austria, ricorso n. 12774/87, decisione della Commissione del 12 ottobre 1989.
Nazionalismo kurdo:
Medya FM Reha Radyo ve Iletişim Hizmetleri A. Ş. c. Turchia, decisione sulla ricevibilità del 14 novembre 2006.
I discorsi politici
Otegi Mondragon c. Spagna – 15 marzo 2011
Il ricorrente, portavoce di un gruppo parlamentare della sinistra indipendentista basca, nel corso di una conferenza stampa aveva fatto riferimento alla chiusura di un quotidiano basco (dovuta a presunti legami con l’ETA), e ai trattamenti inumani che gli arrestati avevano subito durante un’operazione di polizia. Nel suo discorso egli descriveva il re di Spagna come “il capo supremo dell’esercito spagnolo, cioè il responsabile dei torturatori e colui che protegge la tortura e che impone il suo regime monarchico al nostro popolo tramite l’impego della tortura e della violenza”. Il ricorrente era stato condannato alla pena detentiva per ingiuria aggravata nei confronti del re. Egli sosteneva che il suo diritto alla libertà di espressione era stato violato.
La C.E.D.U. ha ritenuto che il discorso in questione non costituiva un attacco personale nei confronti del re, che non metteva in questione né la sua vita privata, né il suo onore, ma solamente la responsabilità istituzionale del re in quanto simbolo dell’apparato statale e delle forze armate che avevano torturato i dipendenti del giornale. Inoltre, la C.E.D.U. ha costatato che il discorso politico del ricorrente s’iscriveva nel quadro di un dibattito politico più ampio in merito all’eventuale utilizzo della tortura da parte della forze di polizia spagnole nell’ambito della lotta al terrorismo e che, dunque, sollevava una questione d’interesse nazionale. La C.E.D.U. ha riscontrato la violazione dell’articolo 10 (libertà di espressione).
Faruk Temel c. Turchia – 1° febbraio 2011
Il ricorrente, presidente di un partito politico legalmente riconosciuto, aveva letto, nel corso di una riunione di partito, un comunicato stampa con il quale denunciava l’intervento degli Stati Uniti in Iraq e la reclusione in una cella in isolamento del capo di un’organizzazione terroristica. Egli criticava, inoltre, la sparizione di alcune persone poste in custodia. In seguito al suo discorso egli era stato condannato per propaganda e apologia della violenza o di altri metodi terroristici. Il ricorrente sosteneva che il suo diritto alla libertà di espressione era stato violato.
La C.E.DU. ha riscontrato la violazione dell’articolo 10 (libertà di espressione). Essa ha constatato che il ricorrente si era espresso in qualità di personaggio politico e membro di un partito politico di opposizione allo scopo di esprimere il punto di vista del suo partito su temi d’attualità e d’interesse generale. La C.E.D.U. ha considerato che la dichiarazione, nel suo complesso, non aveva incitato né all’uso della forza, né alla resistenza armata, né alla rivolta e che non poteva considerarsi un discorso dell’odio.
Si veda, inoltre: Erbakan c. Turchia, sentenza del 6 luglio 2006 (concernente un uomo politico che aveva apertamente incitato all’odio e all’ostilità fondati sulle differenze di religione, razza e regione).
I discorsi incostituzionali/di odio nazionale
Ricorso pendente
Beleri e altri c. Albania (n. 39468/09) – Comunicato al Governo albanese il 31 maggio 2010
I ricorrenti rivendicano la loro appartenenza alla minoranza greca in Albania. In seguito ad alcuni incidenti avvenuti in occasione delle elezioni locali del 2003, essi avevano protestato con delle bandiere greche e degli slogan in favore di uno dei candidati. Le autorità albanesi avevano aperto dei procedimenti nei loro confronti per incitazione all’odio nazionale e diffamazione nei confronti dello Stato e dei suoi simboli. I ricorrenti sostengono che il loro diritto alla libertà di espressione sia stato violato.
Dink c. Turchia – 14 settembre 2010
Firat (Hrank) Dink, giornalista turco di origine armena, aveva pubblicato numerosi articoli riguardanti la questione dell’identità dei cittadini turchi di origine armena. Egli scriveva, in particolare, che gli armeni volevano fortemente far riconoscere la loro qualità di vittime del genocidio del 1915, che i turchi erano indifferenti a questo bisogno degli armeni e che questo spiegava il turbamento di questi ultimi. Inoltre, egli riteneva che i legami e la diaspora con il Paese doveva essere rinforzato per contribuire a una costruzione più sana dell’identità culturale armena. Queste esternazioni hanno provocato delle reazioni violente da parte dei gruppi ultranazionalisti. Il signor Dink è stato dichiarato colpevole di denigrazione del identità turca. All’incirca un anno e mezzo più tardi, egli è stato ucciso da alcuni ultranazionalisti.
La C.E.D.U. ha riscontrato la violazione dell’articolo 10 (libertà di espressione). Essa ha constatato, essenzialmente, che la Turchia non era riuscita a proteggere la vita del signor Dink. Quanto alle sue esternazioni, secondo la C.E.D.U., il signor Dink si era espresso in qualità di giornalista su un tema d’interesse generale quale la ricerca della verità storica. La C.E.D.U. ha rilevato che, incolpandolo, le autorità giudiziarie turche l’avevano indirettamente sanzionato per aver criticato il fatto che lo Stato turco negava le tesi del genocidio degli armeni e che, così facendo, esse avevano violato il suo diritto alla libertà di espressione.
Associazione dei cittadini «Radko» e Paunkovski c. «L’ex-Repubblica di Jugoslavia di Macedonia» – 15 gennaio 2009
Dopo aver autorizzato la sua registrazione, le autorità dell’“ex-Repubblica di Jugoslavia di Macedonia” hanno disciolto un’associazione di cittadini di nome “Radko” che faceva riferimento a Ivan Mihajlov-Radko, capo del movimento di liberazione macedone per oltre 60 anni. Le autorità ritenevano che l’associazione “avrebbe negato l’esistenza dell’identità del popolo macedone promuovendo le idee fasciste circa l’origine bulgara della popolazione macedone”, in contrasto con l’ordine costituzionale dello Stato e che incitava all’odio o all’intolleranza religiosa o nazionale. L’associazione e il suo presidente sostenevano che il loro diritto alla libertà di espressione era stato violato.
La C.E.D.U. ha riscontrato la violazione dell’articolo 11 (libertà di riunione e associazione). Essa ha ritenuto che il semplice fatto di intitolare l’associazione a un uomo percepito negativamente dalla maggior parte della popolazione non costituiva in sé alcun pericolo imminente o una minaccia reale per l’ordine pubblico e non giustificava lo scioglimento di tale associazione. Inoltre, non era stata fornita alcuna prova che dimostrasse che l’associazione sosteneva l’ostilità o che aveva previsto di ricorrere a metodi violenti o tali da sovvertire l’ordine costituzionale. Pur riconoscendo che l’interpretazione della storia del Paese nella visione dell’associazione poteva scioccare numerosi individui, la C.E.D.U. ha ritenuto che essa non costituiva né un attacco alle regole democratiche, né un’apologia della violenza e che non vi era la necessità di vietarla.
Sürek c. Turchia (n. 1) – 8 luglio 1999 (Grande Camera)
Il ricorrente era proprietario di un settimanale ove erano state pubblicate due lettere di lettori che condannavano veementemente le azioni militari delle autorità nel sud-est della Turchia e che le accusavano di reprimere brutalmente la lotta per l’indipendenza e la libertà condotta dalla popolazione curda. Egli era stato condannato per “propaganda contro l’unità dello Stato e incitazione del popolo all’ostilità e all’odio”. Egli sosteneva che il suo diritto alla libertà di espressione era stato violato.
La C.E.D.U. ha riscontato la non violazione dell’articolo 10 (libertà di espressione). Essa ha costatato che le lettere in questione invocavano una vedetta sanguinosa e che in una di esse si citavano alcune persone per nome, alimentando l’odio nei loro confronti e esponendole a un possibile rischio di violenza fisica. Secondo la C.E.D.U., il ricorrente, anche se non era personalmente associato alle opinioni espresse nelle lettere, aveva fornito ai loro autori un supporto per alimentare la violenza e l’odio. La C.E.D.U. ha ritenuto che, in quanto proprietario della rivista, egli condivideva indirettamente i “doveri e responsabilità” che si assumono gli editori e i giornalisti nel momento dell’acquisizione e della diffusione al pubblico delle informazioni, ruolo che riveste un’importanza ancora maggiore in caso di conflitti e di tensioni.
Si vedano, inoltre:
Partidul Comunistilor (Nepeceristi) e Ungureanu c. Romania, sentenza del 3 febbraio 2005 (riguardante il rifiuto d’iscrivere un partito politico nel registro speciale in ragione del rischio di reintroduzione di uno Stato fondato su una dottrina comunista);
Stankov e Organisation macédonienne unie Ilinden c. Bulgaria, sentenza del 2 ottobre 2001 (riguardante il divieto di riunioni di un partito che era stato dichiarato incostituzionale e disciolto, poiché tali incontri “avrebbe creato le condizioni per dei disordini d’ordine pubblico”);
Sidiropoulos e altri c. Grecia, sentenza del 10 luglio 1998 (riguradante il rifiuto d’iscrivere un’associazione in ragione del fatto che, una volta riconosciuta, essa avrebbe potuto svolgere delle attività che mettevano in pericolo l’unità territoriale, la sicurezza nazionale e l’ordine pubblico del Paese).
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Per ulteriori approfondimenti si vedano, in particolare:
- Raccomandazione n. R 97 (20) del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa agli Stati membri sui “discordi dell’odio”, 30 ottobre 1997;
- Raccomandazione di politica generale n. 7della Commissione europea contro il razzismo e l’intolleranza (ECRI) sulla “legislazione nazionale per lottare contro il razzismo e la discriminazione razziale”, 13 dicembre 2002;
- Raccomandazione 1805 (2007)dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa su “blasfemia, insulti a carattere religioso e discorsi dell’odio contro gli individui in ragione della loro religione”, 29 giugno 2007;
- Studio n. 406/2006della Commissione di Venezia, “Rapporto sulle relazioni tra libertà di espressione e libertà di religione: regolamentazione, repressione della blasfemia, dell’ingiuria a carattere religiose e dell’incitazione all’odio religioso”, doc. CDL-AD(2008)026, 23 ottobre 2008;
- Manuale sui discorsi dell’odio, Strasburgo, Edizioni del Consiglio d’Europa, 2008;
- Documento di discussione tematicadel Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa su “giornalismo etico e diritti umani”, doc. CommDH(2011)40, 8 novembre 2011 (disponibile solo in inglese);
- Sito internet della Conferenza “Combattere i discorsi dell’odio” organizzata dal Consiglio d’Europa a Budapest nel novembre 2012