Strasburgo, 27 gennaio 2014 – Con sentenza del 14 gennaio 2014, La C.E.D.U. ha condannato nuovamente l’Italia nel caso Pascucci c. Italia in merito all’annosa questione delle espropriazioni indirette, la pratica seguita in Italia che permette di espropriare immobili e terreni e di modificarli irreversibilmente al fine di costruire opere d’utilità pubblica e che, nella sostanza, priva i proprietari del loro bene conferendo loro un indennizzo irrisorio e di difficoltosa, o quantomeno non immediata, realizzazione.
La giurisprudenza della C.E.D.U. sul punto è costante a partire dalla sentenza Belvedere Alberghiera S.r.l. c. Italia (ricorso n. 31524/96 del 30 maggio 2000) e riaffermata nella sentenza Scordino c. Italia n. 3 (ricorso n. 43662/98 del 17 maggio 2005) e di condanna assoluta rispetto a questa procedura che definisce illegale e inammissibile in uno Stato democratico (Pascucci c. Italia, ricorso n. 1537/04 del 14 gennaio 2014, § 20).
La Corte ha, dunque, dichiarato la violazione dell’art. 1 del Protocollo n. 1 della Convenzione che sancisce il diritto di proprietà.
Il caso della ricorrente prende le mosse nel 1981 quando la Regione Basilicata decise di espropriare il terreno della madre, sito nel Comune di Bernalda in provincia di Matera. Tale terreno fu trasformato in modo definitivo nel 1986. Nel 1989 la madre della ricorrente iniziò un procedimento giudiziario per ottenere il risarcimento del danno. Una prima valutazione nel 1990 del terreno quantificò il valore del terreno in Lire 47.252.500 corrispondenti all’incirca a 24.000 euro; una seconda valutazione avvenuta nel 1998 quantificò il valore del terreno in Lire 73.347.000 corrispondenti all’incirca a 37.880,56 euro; nel 2003 il Tribunale di Matera, a seguito dell’ultima valutazione, quantificò il danno in 37.880,56 euro, rivalutati secondo gli indici ISTAT.
In seguito al decesso della madre, la ricorrente decise di adire la C.E.D.U.
I giudici di Strasburgo le hanno infine riconosciuto un risarcimento per danni materiali e morali pari alla complessiva somma di 52.000 euro.
(Testo redatto con la collaborazione della dott.ssa Alessia Valentino)
Strasburgo, 5 novembre 2013 – Con sentenza del 29 ottobre 2013, la C.E.D.U. ha deciso sul caso Varvara c. Italia, accertando la violazione degli articoli 7 della Convenzione (nulla poena sine lege) e dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 (protezione dei beni) alla Convenzione, a causa della confisca di alcuni beni oggetto di lottizzazione abusiva.
Nel 1984, il ricorrente aveva ottenuto l’approvazione, da parte del Comune di Cassano delle Murge in Puglia, di un progetto di lottizzazione nei pressi della foresta di Mercadante.
Successivamente, a seguito dell’entrata in vigore di due leggi (la n. 431/1985 e la n. 30/1990) e alla presentazione della richiesta di variante da parte del ricorrente, tale progetto fu ritenuto illegittimo. Fu quindi aperta una procedura penale per lottizzazione abusiva che si concluse con l’assoluzione del ricorrente. Tuttavia, i beni oggetto della lottizzazione furono confiscati.
Il ricorrente si si lamentò davanti alla C.E.D.U. che la misura della confisca dei beni era stata applicata in assenza di un giudizio di condanna. Inoltre, tale misura era da considerarsi palesemente illegittima e sproporzionata.
La C.E.D.U., accertando le violazioni denunciate, ha riconosciuto al ricorrente, a titolo di risarcimento danni, la somma di 10.000 euro, mentre, per la quantificazione dei danni materiali, si è riservata di decidere successivamente.
In tema di confisca per lottizzazione abusiva, precedentemente al caso Varvara c. Italia, la C.E.D.U. si è già pronunciata nel caso Sud Fondi e altri c. Italia.
La C.E.D.U. ha inoltre recentemente comunicato al Governo italiano i casi Falgest S.r.l. e altri c. Italia, Hotel Promotion Bureau S.r.l. e altri c. Italia e Petruzzo e altri c. Italia.
Strasburgo, 9 settembre 2013 – Con sentenza del 3 settembre 2013, la C.E.D.U., nel caso M.C. e altri c. Italia (ricorso n. 5376/11) ha accertato, all’unanimità, la violazione degli articoli 6 § 1 della Convenzione (diritto ad un equo processo), 1 del Protocollo n. 1 alla Convenzione (tutela della proprietà) e 14 della Convenzione (divieto di discriminazione) combinato con l’articolo 1 del Protocollo n. 1.
Il caso riguarda l’impossibilità per i ricorrenti di ottenere la rivalutazione annuale della parte complementare di un’indennità loro accordata a seguito del contagio subito a causa di trasfusione sanguigna o per somministrazione di prodotti derivati dal sangue.
La C.E.D.U. ha ritenuto che l’entrata in vigore del decreto legge n. 78 del 2010 ha violato il principio della preminenza del diritto e il diritto ad un processo equo dei ricorrenti, in quanto questi ultimi hanno dovuto sopportare un carico anormale ed eccessivo. Infine, tale normativa ha inciso in modo sproporzionato sui loro beni.
I ricorrenti sono centosessantadue cittadini italiani che furono tutti contaminati da un virus a seguito di trasfusioni sanguigne o per aver assunto dei prodotti derivati dal sangue.
In forza della legge n. 210 del 1992 gli stessi percepirono o percepivano da parte del Ministero della Salute un’indennità, composta da due voci: un importo fisso e un’indennità integrativa speciale (“IIS”).
Con sentenza del 28 luglio 2005, la Corte di Cassazione dichiarò che le due voci dell’indennità in questione dovevano essere sottoposte a rivalutazione sulla base degli indici ISTAT. Nel 2009, modificando il proprio orientamento giurisprudenziale, la Corte di Cassazione ritenne che la legge n. 210 del 1992 prevedesse una rivalutazione annuale solamente per l’importo fisso e non per l’IIS.
Nel maggio 2010, il Governo intervenne in tale materia con decreto legge d’urgenza n. 78 del 2010, stabilendo che non era possibile rivalutare l’IIS.
Sulla questione molti Tribunali proposero questione di legittimità costituzionale alla Corte costituzionale. La Corte costituzionale, con sentenza n. 293/2011, ritenne che le disposizioni del decreto legge n. 78 del 2010 fossero contrarie al principio di uguaglianza garantito dall’articolo 3 della Costituzione, in quanto prevedevano un trattamento discriminatorio tra due categorie di persone, quelle affette dalla sindrome da Talidomida e quelle affette da epatiti. Era previsto infatti che l’IIS fosse rivalutata annualmente solo per la prima categoria di persone. La Corte Costituzionale dichiarò quindi l’incostituzionalità del decreto legge n. 78 del 2010.
Nonostante ciò, dopo la pubblicazione della sentenza della Corte costituzionale, i ricorrenti non sono riusciti ad ottenere la rivalutazione dell’IIS.
I ricorrenti, invocando gli articoli 6 e 13 della Convenzione, hanno eccepito che il Governo era intervenuto con il decreto legge n. 78 del 2010 in una materia oggetto di contenzioso giudiziario e in cui era parte convenuta.
Invocando l’articolo 1 del Protocollo n 1, i ricorrenti hanno eccepito che senza la rivalutazione, l’IIS avrebbe perso progressivamente d’importanza, facendo presente che tale voce rappresentava tra il 90% e il 95% dell’importo globale dell’indennità riconosciuta.
Invocando gli articoli 14 della Convenzione e 1 del Protocollo n.12, combinati con l’articolo 2 della Convenzione, i ricorrenti eccepirono di essere stati vittime di molteplici discriminazioni.
Quanto agli articoli 6 § 1 e 13 della Convenzione, la C.E.D.U. ha accertato che l’adozione del decreto legge n. 78 del 2010 ha definito i termini della questione riguardo all’IIS, fornendo un’interpretazione favorevole allo Stato. Tale decreto legge ha avuto infatti come conseguenza quella di definire molti procedimenti giudiziari pendenti, privando i ricorrenti di future decisioni a loro favorevoli, ovvero privando dell’esecutorietà delle sentenze favorevoli già emesse.
Sempre secondo la C.E.D.U. il motivo che ha portato lo Stato italiano ad adottare tale decreto legge non è stato quello di preservare imperativi motivi di interesse generale.
La C.E.D.U. ha rilevato inoltre che la Corte costituzionale aveva giudicato che i criteri adottati con il decreto legge n. 78 del 2010 erano contrari alla Costituzione in quanto avevano introdotto una disparità di trattamento ingiustificata.
Conseguentemente la C.E.D.U. ha ritenuto che l’adozione del decreto legge n. 78 del 2010 ha violato il principio della preminenza del diritto e il diritto ad un processo equo dei ricorrenti. Ha pertanto accertato la violazione dell’articolo 6 § 1 della Convenzione, ritenendo invece non necessario decidere quanto alla lamentata violazione dell’articolo 13 della Convenzione.
Quanto all’articolo 1 del Protocollo n. 1, la C.E.D.U. ha ricordato che entrando in vigore, il decreto legge n. 78 del 2010 da una parte ha privato i ricorrenti dei diritti riconosciuti da una sentenza favorevole ovvero, dall’altra parte, altri ricorrenti hanno visto rigettare le richieste avanzate in sede giurisdizionale. Secondo la C.E.D.U. l’adozione di tale decreto legge ha comportato “un carico anormale ed esorbitante” e quindi sproporzionato per i ricorrenti, con conseguente violazione dell’articolo 1 del Protocollo n. 1.
Quanto all’articolo 14 combinato con l’articolo 1 del Protocollo n. 1, la C.E.D.U. ha affermato che nonostante la pronuncia della Corte costituzionale, lo Stato italiano non ha eliminato la disparità di trattamento evidenziata dalla Consulta e conseguentemente ha ritenuto sussistere la violazione della’articolo 14 della Convenzione.
Infine, la C.E.D.U. ha ritenuto che le violazioni dei diritti dei ricorrenti non siano casi isolati, ma sia la conseguenza di un problema strutturale derivante dalla resistenza delle autorità italiane a rivalutare l’IIS, anche a seguito della pronuncia della Corte costituzionale.
La C.E.D.U. ha quindi deciso di applicare al caso la procedura della sentenza pilota prevista dall’articolo 46 della Convenzione. La C.E.D.U. ha così invitato lo Stato italiano a individuare entro sei mesi dall’emanazione della sentenza, un termine tassativo entro cui si impegna a garantire i diritti oggetto di controversia. La C.E.D.U. ha quindi invitato il Governo italiano a versare le somme corrispondenti alla rivalutazione dell’IIS tutte le persone che beneficino dell’indennità prevista dalla legge n. 210 del 1992.
In attesa che le autorità italiane adottino le misure necessarie entro il termine indicato, la C.E.D.U. ha deciso di sospendere i ricorsi non ancora comunicati ed aventi il medesimo oggetto di lagnanza per un periodo di un anno.
Infine, la C.E.D.U. si è riservata di quantificare i danni materiali e morali subiti dai ricorrenti ai sensi dell’articolo 41 della Convenzione.