Strasburgo, 17 aprile 2009 – con sentenza del 7 aprile 2009, la CEDU ha deciso nel caso CHERIF e altri c. Italia (n° 1860/07). I ricorrenti, i primi due fratelli e cittadini tunisini e la terza cittadina italiana e compagna del primo ricorrente, si sono rivolti alla CEDU lamentando che l’esecuzione del decreto di espulsione emesso nei confronti del primo ricorrente, avrebbe violato gli articoli 3, 6, 8, 13 e 34 della Convenzione.
In questo caso la CEDU non ha ritenuto di accertare la violazione dell’art. 8 per il secondo e la terza ricorrente. La CEDU, nel valutare la situazione personale del primo ricorrente, condannato in Italia e in Tunisia, si è discostata dalla propria giurisprudenza elaborata in materia di valutazione della situazione di stranieri delinquenti, e ha tenuto in considerazione soprattutto i sospetti formulati dal Governo italiano. La decisione è stata sofferta, avendo votato favorevolmente quattro giudici su sette.
Il caso in esame propone inoltre la delicata questione della rappresentanza del ricorrente davanti alla CEDU.
Ma veniamo ai fatti.
In questa vicenda il primo ricorrente, il sig. Foued Ben Fitouri Cherif, cittadino tunisino, entrò in Italia nel 1993 e nel 1996 si sposò con la ricorrente, la sig.ra Sonia Brusadelli. Dall’unione nacquero tre figli, rispettivamente nel 1996, nel 2001 e nel 2004. Il primo ricorrente ottenne un regolare permesso di soggiorno.
I ricorrenti affermano che il primo ricorrente non ha commesso alcun reato sul territorio italiano. Peraltro lo stesso sarebbe stato giudicato in contumacia nel proprio Paese d’origine a otto anni di reclusione dal Tribunale militare di Tunisi.
Il Governo italiano ha dato invece un’altra versione circa l’incensuratezza del primo ricorrente, informando la CEDU che lo stesso avrebbe avuto diversi precedenti penali e che sarebbe una persona pericolosa (si vedano i §§ 7, 23 e 24 della sentenza).
Il 13 luglio 2005 agenti della Questura di Sondrio perquisirono l’abitazione del primo ricorrente. Gli inquirenti avevano un mandato per cercare armi ed esplosivi, ma la perquisizione si risolse con un nulla di fatto.
Il 4 gennaio 2007, il Ministro degli Interni ordinò l’espulsione del primo ricorrente verso la Tunisia, in applicazione delle disposizioni del decreto legge n. 144 del 27 luglio 2005 (riguardante le “misure urgenti per combattere il terrorismo internazionale”, convertito con legge n. 155 del 31 luglio 2005). Secondo il decreto di espulsione il ricorrente avrebbe intrattenuto delle relazioni con elementi di primo piano dell’integralismo islamico in Italia. Pertanto, tenendo conto del contesto riguardante il terrorismo islamico, il Ministero degli Interni aveva ritenuto che il primo ricorrente potesse prestare assistenza in Italia a terroristi o potesse favorirne l’attività terroristica.
Il Ministero dell`Interno precisò inoltre che il ricorrente avrebbe potuto ritornare in Italia solo dopo aver ottenuto un`autorizzazione ministeriale ad hoc, che la Questura di Sondrio era incaricata di eseguire il provvedimento di espulsione e che tale provvedimento poteva essere impugnato entro sessanta giorni davanti al Tribunale amministrativo della regione Lazio (T.A.R.del Lazio).
Lo stesso giorno del 4 gennaio 2007, verso le 16, il primo ricorrente venne interrogato dalla Polizia e condotto presso la Questura di Milano, dove gli venne notificato un decreto di espulsione e un`ordinanza prefettizia con cui il Prefetto di Sondrio revocava il permesso di soggiorno rilasciato il 19 gennaio 2000, di durata indeterminata, con avviso che tale provvedimento poteva essere impugnato davanti al T.A.R. del Lazio entro sessanta giorni.
I tentativi del primo ricorrente di mettersi in contatto telefonico con la moglie, la seconda ricorrente, per informarla di quanto stesse succedendo, risultarono vani. Il primo ricorrente venne quindi accompagnato all’aeroporto e solo da lì riuscì a telefonare alla moglie, informandola di quanto stesse succedendo e pregandola di contattare un avvocato, in quanto il suo rimpatrio metteva in pericolo la sua stessa vita.
Alle 21,10 di quello stesso giorno la ricorrente presentò una richiesta d’asilo a nome del ricorrente, il quale nel frattempo era stato imbarcato su un aereo con destinazione Tunisi che decollava alle 21,20. Peraltro il nome del ricorrente non risulta nella lista dei passeggeri di quel volo e nessun lascia passare sarebbe stato rilasciato per il rientro in Tunisia.
Risulterebbe inoltre, questo secondo le dichiarazioni dei ricorrenti, che le autorità italiane avrebbero fatto pressione sul primo ricorrente cercando di ottenere la sua collaborazione, ma che questi non avrebbe accettato e pertanto, per questo motivo, sarebbe stato espulso.
Arrivato in Tunisia il primo ricorrente venne incarcerato e sottoposto a torture presso i locali del Ministero dell’Interno fino al 15 gennaio 2007. Poi fu trasferito presso il penitenziario civile di Tunisi sotto la responsabilità delle autorità militari. Non potè avere inoltre alcun conttatto con i propri familiari.
Questi ultimi nominarono un avvocato per rappresentare il primo ricorrente in Tunisia, ma il difensore non riuscì ad ottenere alcuna documentazione riguardante il procedimento penale a carico dello stesso.
Il ricorso ai sensi dell’art. 39 del Regolamento della CEDU
Nel frattempo, l’11 gennaio 2007, il fratello e la moglie del primo ricorrente presentavano un ricorso alla CEDU, anche a nome del primo ricorrente, con richiesta di adozione delle misure provvisorie ai sensi dell’art. 39 del suo Regolamento. In particolare chiesero che l’Italia venisse invitata a produrre garanzie sufficienti quanto al rispetto della vita e dell’integrità fisica del primo ricorrente, nonché ad attivarsi affinché lo stesso fosse rimesso in libertà immediatamente per poter tornare in Italia, oltre alla possibilità di nominare un avvocato di fiducia in Tunisia e di comunicare con la propria famiglia.
Il ricorso al TAR
Ad una data imprecisata la ricorrente presentò ricorso al TAR del Lazio chiedendo l’annullamento del decreto di espulsione nonché la revoca del permesso di soggiorno di suo marito, chiedendo inoltre la sospensione dell’esecuzione dei provvedimenti impugnati. Il TAR respinse la richiesta di sospensiva accertando peraltro il difetto di legittimazione passiva della ricorrente.
Le assicurazioni diplomatiche ottenute dalle autorità italiane
Successivamente, il 29 agosto 2008, l’Ambasciata d’Italia a Tunisi chiese al Ministero tunisino degli Affari Esteri di fornire assicurazioni diplomatiche riguardo alla situazione del primo ricorrente.
In data 5 novembre 2008, le autorità tunisine diedero riscontro alla richiesta dell’Ambasciata italiana dando notizia, tra l’altro che il ricorrente aveva subito un processo per reati di terrorismo commessi fuori dal territorio tunisino e in particolare per il reato di raccolta di denaro per il finanziamento del terrorismo e che lo stesso era stato processato equamente. Durante il processo il ricorrente aveva potuto difendersi. Era stato condannato per aver dato contribuzioni pecuniarie a membri di una banda di malviventi e condannato per questa imputazione ad un anno di reclusione mentre era stato assolto per il reato di adesione ad una organizzazione terroristica. Il ricorrente era stato quindi rilasciato nel gennaio 2008, dopo aver scontato la pena inflittagli.
Questa la vicenda.
Passo ora ad esaminare la parte in diritto e le questioni più interessanti, ossia la rappresentanza del primo ricorrente davanti alla CEDU e il mancato accertamento della violazione dell’art. 8 della Convenzione, punto assai controverso e che appare in contrasto con l’indirizzo giurisprudenziale.
La rappresentanza legale del primo ricorrente davanti alla CEDU
La CEDU ha preso innanzitutto in considerazione la rappresentanza del primo ricorrente, dato che non risulta sia mai stata depositata una procura o un mandato dai suoi difensori, dapprima gli avvocati Clementi e Manara di Milano e successivamente, a partire dal 2 aprile 2007, l’avv. Ballerini di Genova.
Purtroppo nessuno degli avvocati avrebbe avuto un valido mandato per rappresentare il ricorrente davanti alla CEDU.
Nella sentenza si legge in particolare che l’avv. Ballerini era stata informata tempestivamente che il Governo italiano aveva eccepito l’assenza di una valida procura a rappresentare il ricorrente, ma nonostante ciò, la stessa aveva trasmesso in data 9 febbraio 2007 una procura in suo favore che tuttavia l’autorizzava a rappresentare il ricorrente davanti al TAR del Lazio, ma non davanti alla CEDU.
La CEDU, richiamando l’art. 36 del suo Regolamento, ha ricordato che “le persone fisiche possono inizialmente presentare un ricorso agendo sia personalmente che a mezzo di un rappresentante” e che una volta che il ricorso è notificato allo Stato convenuto ogni ricorrente deve, salvo decisione contraria del Presidente della Camera, essere rappresentato da un avvocato abilitato. Infine, il ricorso presentato ai sensi dell’art. 34 della Convenzione deve essere presentato per iscritto e deve essere sottoscritto dal ricorrente o da un suo rappresentante. Quando il ricorrente è rappresentato, il suo difensore deve produrre, ai sensi dell’art. 45 del Regolamento, una procura o un mandato scritto.
La CEDU, pur tenendo presente l’impossibilità per il ricorrente di sottoscrivere un mandato nell’imminenza della sua espulsione, ha rilevato che successivamente, pur trovandosi in carcere a Tunisi, aveva potuto incontrare la moglie il 9 febbraio 2007 e che in quella occasione, aveva sottoscritto il mandato per l’avv. Ballerini a rappresentarlo davanti al TAR del Lazio. Inoltre, dal gennaio 2008, era stato liberato e pertanto a partire da quel momento avrebbe potuto prendere contatto con il proprio difensore ed inviare una procura per farsi rappresentare validamente davanti alla CEDU.
Tenendo presente tali circostanze, la CEDU ha ritenuto che il primo ricorrente non avesse più l’interesse a mantenere il ricorso. La CEDU ha peraltro ritenuto di non dover proseguire nell’esame del ricorso ai sensi dell’art. 37 della Convenzione. In proposito, la CEDU ha ricordato che le questioni sollevate nel caso di specie sono state già trattate nei casi Saadi c. Italia (n. 37201/06), sentenza di Grande Camera del 28 febbraio 2008 e in altre sentenze riguardanti casi simili come per esempio il caso Ben Khemais c. Italia (n. 246/07), sentenza del 24 febbraio 2009.
La CEDU non ha quindi esaminato nel merito la vicenda riguardante il primo ricorrente, che si trovava in una situazione molto simile a quella descritta nei casi Saadi, Ben Kemais ed altri, già esaminati nel corso del 2008 e 2009.
La non violazione dell’art. 8 della Convenzione
Il secondo e la terza ricorrente hanno lamentato anche la violazione dell’articolo 8 della Convenzione, in quanto l’espulsione del primo ricorrente avrebbe pregiudicato la loro vita familiare. La CEDU pur riconoscendo l’ammissibilità dell’applicazione dell’art. 8 non ha poi ritenuto di accertare la violazione del diritto al rispetto della vita familiare dei ricorrenti.
In particolare la CEDU ha riconosciuto che l’ingerenza dello Stato perseguiva uno scopo legittimo, ossia la protezione della sicurezza pubblica, la difesa dell’ordine e la prevenzione di delitti. La CEDU ha preso in considerazione, oltre alle condanne penali del ricorrente, soprattutto le informazioni raccolte dal Ministero dell’Interno secondo cui vi sarebbero stati elementi che portavano a pensare che il primo ricorrente avesse intrattenuto relazioni con persone appartenenti all’integralismo islamico in Italia. Inoltre tali sospetti sarebbero stati rafforzati dal fatto che il primo ricorrente era stato processato in Tunisia per appartenenza ad un’organizzazione terroristica e che pur essendo stato assolto per tale imputazione, era stato comunque riconosciuto colpevole per contribuzioni a membri di una banda di malviventi e condannato, per questo motivo, ad un anno di reclusione.
Riguardo alla situazione familiare del primo ricorrente, la CEDU ha ritenuto che i figli, ancora giovani, avrebbero potuto trasferirsi in Tunisia riuscendo ad addattarsi al nuovo Paese.
Infine, riguardo al fatto che il primo ricorrente non possa tornare in Italia se non con un’autorizzazione ministeriale ad hoc, la CEDU ha ritenuto che questo è giustificato dal fatto che l’interesse pubblico debba prevalere sull’interesse al rispetto della vita familiare del primo ricorrente, peraltro condannato e gravemente sospettato.
Come ho già ricordato, questa decisione non è stata presa all’unanimità, ma con quattro voti favorevoli e tre contrari.
Ritengo utile segnalare l’opinione dissenziente dei tre giudici che hanno votato contro tale decisione, tra cui la stessa Presidente di Sezione, la sig.ra F. Tulkens.
Secondo questi tre giudici l’espulsione del primo ricorrente avrebbe violato l’art. 8 della Convenzione.
Prendendo in esame i casi di espulsione di stranieri delinquenti e richiamando in particolare le sentenze Boutif c. Suisse, del 2 agosto 2001 e Uner c. Paesi Bassi, del 18 ottobre 2006 (GC), i giudici dissenzienti hanno ricordato quali siano i criteri da applicarsi per valutare se un provvedimento di espulsione sia necessario in una società democratica nonché proporzionato allo scopo legittimo perseguito.
In particolare i tre giudici dissenzienti hanno fatto presente che la durata del soggiorno del primo ricorrente era stata importante avendo lo stesso vissuto in Italia per quattordici anni.
Riguardo alla natura e gravità dei reati commessi sul territorio italiano, i tre giudici hanno rilevato che in relazione ad altri casi esaminati dalla CEDU il percorso del ricorrente non era di tale gravità da giustificare che “le esigenze di protezione dell’ordine pubblico e della sicurezza nazionale prevalessero sugli interessi familiari” (§ 66 della sentenza). I tre giudici fanno inoltre notare che l’ultima condanna del primo ricorrente risale al 1999 mentre l’espulsione è avvenuta nel 2007.
I giudici dissenzienti hanno fatto presente che i sospetti sul primo ricorrente hanno avuto un peso sproporzionato, costituendo l’elemento determinante che ha portato la maggioranza a votare per la non violazione dell’articolo 8 della Convenzione. D’altra parte, i sospetti fondati sulla pericolosità del primo ricorrente si sono rivelati inconsistenti, dato che le autorità tunisine non lo hanno condannato per fatti legati al terrorismo.
Infine, riguardo alla situazione familiare del ricorrente, i giudici ritengono che la famiglia del ricorrente avrebbe subito un trauma se l’avesse seguito in Tunisia. I giudici affermano infatti che il loro trasferimento in Tunisia sarebbe apparso irrealistico ed inumano.
I tre giudici dissenzienti ricordano infine che è incontestabile la necessità di proteggersi dalla minaccia del terrorismo, ma che la protezione più sicura contro tale minaccia deve essere il rispetto dei diritti fondamentali, tra cui il diritto al rispetto della vita familiare. La violenza infatti rischia di generare ulteriore violenza.