Lussemburgo, 24 giugno 2011 – La Corte di giustizia dell’Unione europea (Grande Sezione), il 24 maggio 2011, nelle cause C‑47/08, Commissione c. Belgio, C-50/08, Commissione c. Francia, C-51/08, Commissione c. Lussemburgo, C-52/08, Commissione c. Portogallo, C-53/08, Commissione c. Austria, C‑54/08, Commissione c. Germania, C‑61/08, Commissione c. Grecia, ha deciso che gli Stati membri citati, avendo imposto il requisito della cittadinanza per consentire l’accesso alla professione di notaio, sono venuti meno agli obblighi ad essi incombenti ai sensi dell’art. 43 CE, ora art. 49 del Trattato FUE, sulla libertà di stabilimento.
Il problema principale che la Corte affronta nelle fattispecie sottoposte al suo esame è quello di verificare se gli Stati membri citati abbiano o meno violato l’art. 43 del Trattato CE, ora art. 49 del Trattato FUE, che sancisce il principio della libertà di stabilimento, disposizione fondamentale del diritto dell’Unione, secondo cui ciascuno Stato membro deve consentire a tutti i cittadini degli Stati membri dell’Unione l’accesso alle attività autonome ed al loro esercizio alle condizioni poste dalla normativa dello Stato membro di stabilimento per i propri cittadini, al fine di assicurare ai primi lo stesso trattamento previsto per i secondi. Si tratta in sostanza di accertare se l’imposizione del requisito della cittadinanza, da parte degli Stati membri di cui alle cause in questione, per consentire l’accesso alla professione di notaio nel proprio Stato membro sia una discriminazione, fondata appunto sulla cittadinanza e, perciò, vietata dal menzionato art. 43 CE, o se, piuttosto, l’attività notarile debba considerarsi come esercizio di una pubblica funzione, sottoposta all’art. 45 CE, ora art. 51 del Trattato FUE, il quale esclude dall’applicazione delle disposizioni sulla libertà di stabilimento le attività che “partecipano, sia pure occasionalmente, all’esercizio dei pubblici poteri”.
Allo scopo di far dichiarare l’inadempimento dei suddetti Stati membri alle norme del Trattato, la Commissione europea, con alcuni ricorsi ex art. 226 CE, ora art. 258 del Trattato FUE, ha chiesto alla Corte di statuire che i summenzionati Stati membri, avendo prescritto un requisito di cittadinanza per l’accesso alla professione notarile, si sono resi inadempienti nei confronti degli obblighi che scaturiscono dagli artt. 43 CE e 45 CE.
Occorre subito sottolineare che i ricorsi concernono solo il richiamato requisito voluto dalle normative nazionali in parola, alla luce dell’art. 43 CE, per consentire l’accesso al notariato e non vertono invece sull’organizzazione dello stesso.
A tal fine, la Corte, dopo aver verificato se l’attività notarile sia qualificabile come pubblica funzione ai sensi del Trattato CE, afferma che “le attività notarili, come definite attualmente negli ordinamenti giuridici degli Stati membri di cui trattasi, non partecipano all’esercizio dei pubblici poteri” ai sensi del suddetto art. 45 del Trattato CE.
A differenza di quanto affermano gli Stati membri citati, secondo i quali, benché presti abitualmente i propri servizi nel loro territorio nell’ambito di una professione privata, la sua attività ha carattere pubblico ed è, per questo motivo, esclusa dalla disciplina sulla libertà di stabilimento, la Corte asserisce che il notaio, quale pubblico ufficiale, svolge soprattutto un’attività di autenticazione di atti giuridici. Nell’esercizio di tale attività, che può essere obbligatoria oppure facoltativa in funzione della natura dell’atto, egli deve accertare che sussistano tutti i requisiti previsti dalla legge per la realizzazione dell’atto nonché la capacità giuridica e di agire delle parti. L’atto pubblico ha altresì efficacia probatoria qualificata ed efficacia esecutiva. La Corte sottolinea, però, che vengono autenticati gli atti o le convenzioni alle quali le parti hanno liberamente aderito, poiché sono le stesse parti a decidere, nei limiti posti dalla legge, la portata dei loro diritti e obblighi e a scegliere liberamente le pattuizioni alle quali vogliono sottoporsi. Per di più, il notaio non può modificare unilateralmente la convenzione che deve autenticare senza avere prima ottenuto il consenso delle parti. Per tali motivi l’attività di autenticazione non può essere considerata una pubblica funzione e tale conclusione non può essere inficiata dal fatto che determinati atti o determinate convenzioni debbano essere obbligatoriamente autenticati a pena di nullità, in quanto è usuale che la validità di atti diversi sia soggetta a requisiti di forma o ancora a procedure obbligatorie di convalida.
Allo stesso modo, il fatto che l’attività dei notai persegua un obiettivo di interesse generale, che è quello di garantire la legalità e la certezza del diritto degli atti conclusi tra privati, non è di per sé sufficiente ad attribuire alla funzione carattere pubblico, considerato che le attività svolte nell’ambito di diverse professioni regolamentate comportano di frequente l’obbligo di perseguire un obiettivo del genere, senza che dette attività rientrino per questa ragione nell’ambito dell’esercizio di tali poteri.
Riguardo all’efficacia probatoria degli atti notarili, si rileva che essa rientra nel regime delle prove degli Stati membri e non ha un’incidenza diretta sulla qualificazione dell’attività notarile di redazione di tali atti. Quanto all’efficacia esecutiva degli atti stessi, essa si fonda sulla volontà delle parti che si presentano dinanzi al notaio proprio per stipulare un atto notarile e per far conferire allo stesso efficacia esecutiva, dopo che il notaio ne ha verificato la conformità alla legge.
Per quanto concerne la partecipazione ai pignoramenti immobiliari o il loro intervento in materia di diritto successorio, si tratta di attività che non implicano alcun esercizio dei pubblici poteri, giacché la maggior parte di esse viene svolta, rispettivamente, sotto la vigilanza di un giudice o in conformità alla volontà dei clienti.
Nei limiti delle rispettive competenze territoriali, i notai esercitano la loro professione in regime di concorrenza, ciò che, viceversa, non avviene per l’esercizio di pubblici poteri. Essi sono anche direttamente e personalmente responsabili, nei confronti dei loro clienti, dei danni prodotti da errori commessi nell’esercizio delle loro attività, mentre invece per gli errori commessi dalle autorità pubbliche è lo Stato ad essere responsabile.
A conclusione delle motivazioni di cui sopra, la Corte conclude, pertanto, che il requisito di cittadinanza, previsto dalla normativa di tali Stati per l’accesso alla professione di notaio, costituisce una discriminazione fondata sulla cittadinanza vietata dal Trattato CE.
La seconda problematica che la Corte è chiamata a risolvere riguarda la censura mossa dalla Commissione agli Stati membri in parola, eccetto alla Francia, di non applicare ai notai, e di non aver trasposto, le direttive sul riconoscimento dei diplomi di istruzione superiore che sanzionano formazioni professionali di una durata minima di tre anni e, per l’Austria e la Germania, sulle qualifiche professionali.
Per quanto concerne l’obbligo di trasporre le suddette direttive, la Corte dichiara che, tenuto conto delle circostanze particolari che hanno accompagnato l’iter legislativo, nonché della situazione di incertezza che ne è conseguita, non è possibile constatare che esistesse, alla scadenza del termine fissato nel parere motivato, un obbligo sufficientemente chiaro per gli Stati membri di trasporre le summenzionate direttive e respinge, di conseguenza, la censura.
dott.ssa Bettina Travaglia