Nel caso Sharifi e altri, la Corte europea dei diritti dell’uomo condanna l’Italia e la Grecia, la prima per le espulsioni collettive indiscriminate nei confronti di migranti afgani, la seconda per aver loro impedito di accedere al procedimento per la richiesta di asilo

afghanistanStrasburgo, 22 ottobre 2014 – Con sentenza del 21 ottobre 2014, la C.E.D.U. ha finalmente deciso il caso Sharifi e altri c. Italia e Grecia. Il ricorso, presentato ancora il 23 marzo 2009 era stato inizialmente comunicato ai Governi interessati da parte della C.E.D.U., il 23 giugno 2009, ma poi è rimasto a lungo in attesa di una pronuncia, nonostante fosse stato stabilito che il caso dovesse essere trattato in via prioritaria, ai sensi dell’articolo 41 del Regolamento.

 Nel leggere la sentenza appare evidente che il lungo tempo trascorso è dovuto anche alla continua richiesta di informazioni circa la situazione dei ricorrenti. A tali richieste l’avvocato dei ricorrenti, Alessandra Ballerini del foro di Genova, è riuscita a dare le informazioni in suo possesso, nonostante le grosse difficoltà dovute alla situazione di grande precarietà in cui versavano i suoi assistiti. Tale rigore nella ricerca di informazioni dettagliate riguardo la situazione dei ricorrenti da parte della C.E.D.U. è stata forse eccessiva, proprio in considerazione delle condizioni estreme in cui gli stessi versavano. A causa di ciò i ricorrenti che hanno ottenuto l’accertamento della violazione sono stati solo quattro, mentre per gli altri, come si vedrà in prosieguo, la C.E.D.U. ha ritenuto di radiare il causa dal ruolo.

Questo caso nasce da un’azione comune, portata avanti dopo la morte di un ragazzino afgano, Zaher Rezai, avvenuta l’11 dicembre 2008. Grazie alle associazioni veneziane e agli enti di accoglienza veneziani, al C.I.R., ma soprattutto grazie ad Alessandra Sciurba, brillante sociologa, all’epoca fu organizzato un viaggio a ritroso, per incontrare i migranti a Patrasso. Là Alessandra Sciurba, anche con l’aiuto di Anna Milani e Basir Ahang, quest’ultimo rifugiato politico e giornalista afghano, riuscì a raccogliere le storie di molte persone e tra queste quelle dei ricorrenti (per maggiori informazioni si legga l’articolo “Caso Sharifi e altri c. Italia e Grecia – La Corte di Strasburgo condanna l’Italia. Un ricorso costruito dal basso ferma i respingimenti dai porti dell’Adriatico”, di Alessandra Sciurba)

La sentenza Sharifi e altri è di grande interesse perché, finalmente, la prassi di rinvio automatico nei porti italiani, in totale assenza delle garanzie minime per la tutela dei diritti fondamentali, è stata accertata e conseguentemente sanzionata.

Con tale sentenza, la C.E.D.U. ha accertato la violazione dell’articolo 13 (diritto ad un ricorso effettivo) combinato con l’articolo 3 (divieto di trattamenti inumani o degradanti) della Convenzione nei confronti della Grecia per l’impossibilità per i ricorrenti di accedere alla procedura per richiedere l’asilo e per averli messi a rischio di espulsione verso l’Afganistan dove avrebbero potuto subire maltrattamenti. Ha inoltre accertato la violazione dell’articolo 4 del Protocollo n. 4 (divieto di espulsioni collettive di stranieri) nei confronti dell’Italia. Sempre nei confronti dell’Italia, la C.E.D.U. ha accertato la violazione dell’articolo 3 della Convenzione, in quanto le autorità italiane, rinviando i ricorrenti in Grecia, li hanno esposti ai rischi connessi all’inefficacia della procedura per la richiesta di asilo in tale paese. Infine, la C.E.D.U. ha accertato la violazione nei confronti dell’Italia dell’articolo 13 combinato con gli articoli 3 della Convenzione e 4 del Protocollo n. 4 per l’impossibilità di accedere alla procedura d’asilo o ad una qualsiasi altra via di ricorso nel porto di Ancona.

I ricorrenti che hanno presentato ricorso erano inizialmente un totale di trentacinque: trentadue cittadini afgani, due cittadini sudanesi e un cittadino eritreo. Gli stessi avevano denunciato di essere arrivati clandestinamente in Italia provenendo dalla Grecia e avevano esposto di aver raggiunto, tra il 2007 e il 2008 il territorio greco provenendo da Paesi dilaniati dalla guerra, ovvero l’Afganistan, il Sudan e l’Eritrea. I ricorrenti avevano inoltre riferito di essersi imbarcati clandestinamente a Patrasso, in Grecia, su navi aventi come destinazione l’Italia, dove erano arrivati tra gennaio 2008 e febbraio 2009, raggiungendo i porti di Bari, Ancona e Venezia. Appena giunti, la polizia di frontiera li aveva intercettati e immediatamente rinviati in Grecia.

Il Governo italiano ha invece sostenuto che solo il ricorrente Reza Karimi avrebbe raggiunto il territorio italiano. Questi, nascosto con altri diciassette clandestini in un camion che trasportava verdura, sarebbe stato scoperto dalla polizia nel porto di Ancona il 14 gennaio 2009 e rinviato in Grecia lo stesso giorno per giungere a Patrasso il giorno successivo.

Invece, secondo il Governo greco, solo dieci ricorrenti sarebbero entrati nel suo territorio. In effetti, sempre secondo le autorità greche, nei confronti di tali dieci ricorrenti furono emessi dei provvedimenti espulsivi. Agli stessi era stato quindi intimato di lasciare il territorio greco entro trenta giorni. Tra queste dieci persone, solo una aveva presentato domanda d’asilo, che fu comunque respinta, e un’altra avrebbe ottenuto la sospensione dell’espulsione in seguito alle indicazioni fornite dalla C.E.D.U., che aveva chiesto in via provvisoria ai sensi dell’articolo 39 del Regolamento di sospendere i provvedimenti espulsivi per sei dei ricorrenti. Nonostante ciò, uno di questi era stato espulso verso la Turchia e altri due furono ristretti ai confini dell’Albania in vista del loro respingimento.

Nel frattempo, tra luglio e dicembre 2009, l’avvocato dei ricorrenti aveva informato la C.E.D.U. della situazione di grande incertezza in cui versavano alcuni ricorrenti. La polizia greca aveva infatti sgomberato il campo di Patrasso distruggendo tutti i ripari dei richiedenti asilo e arrestando alcuni ricorrenti. L’avvocato aveva fatto presente di non essere in grado di indicare i nomi dei suoi assistiti che si trovavano in tale situazione, ciò a causa della grande confusione e dell’incertezza esistenti. Alcuni ricorrenti vivevano per strada ad Atene o a Patrasso e altri erano riusciti a raggiungere altri Paesi, come la Svezia, la Svizzera e la Norvegia. Sempre l’avvocato dei ricorrenti, aveva informato la C.E.D.U. che uno dei ricorrenti, Najeeb Heideri, era scappato da Patrasso ed era riuscito a raggiungere l’Italia, a Parma, dove era riuscito a presentare una richiesta di protezione internazionale. L’avvocato aveva inoltre fatto presente di essere in contatto con i ricorrenti Mozamil Azimi e Reza Karimi che si trovavano in un centro d’accoglienza in Norvegia. In seguito l’avvocato aveva informato la C.E.DU. che diversi ricorrenti l’avevano contattata per richiedere informazioni sul ricorso presentato. Nel 2013, l’avvocato aveva fatto presente che Najeeb Heideri aveva ottenuto lo statuto di rifugiato in Italia. Questi aveva provato per due volte di arrivare clandestinamente in Italia dalla Grecia e di essere stato rinviato verso la Grecia dal porto di Ancona senza alcun provvedimento e senza essere identificato. In proposito il Governo italiano ha sostenuto che Najeeb Heideri non è mai stato inserito nel data-base “Eurodac”.

Sulle questioni preliminari, i Governi italiano e greco si sono purtroppo distinti, eccependo e mettendo in dubbio l’identità dei ricorrenti. La C.E.D.U. ha ritenuto che tali eccezioni fossero prive di fondamento in quanto non poteva essere posto in dubbio sia l’autenticità delle procure sottoscritte dai ricorrenti che la loro identità e le loro allegazioni.

La C.E.D.U. ha ritenuto tuttavia di proseguire l’esame del ricorso solo per quei ricorrenti che hanno mantenuto, anche indirettamente, un contatto regolare con il loro avvocato. Essi sono risultati essere solamente quattro, ovvero Reza Karimi, Yasir Zaidi, Mosamil Azimi e Najeeb Heideri. Per gli altri ricorrenti la causa è stata invece cancellata dal ruolo.

Nei confronti della Grecia, la C.E.D.U. ha accertato le gravi deficienze della procedura d’asilo nonché le precarie condizioni dei richiedenti asilo che si trovavano nel campo di Patrasso. Questo era peraltro un semplice campo di fortuna, sovraffollato e privo di qualsiasi servizio essenziale. Il Governo greco ha sostenuto che i ricorrenti non avrebbero avuto intenzione di richiedere l’asilo, ma che avevano solo la volontà di rimanere sul territorio greco. La C.E.D.U. ha invece accertato che i ricorrenti erano a serio rischio di essere rinviati in Afganistan e che pertanto, per loro, era concreto l’interesse di poter accedere ad una via di ricorso ai sensi dell’articolo 13 della Convenzione. Conseguentemente, secondo la C.E.D.U. vi è stata violazione dell’articolo 13 combinato con l’articolo 3 della Convenzione.

Nei confronti dell’Italia, riguardo alle espulsioni collettive, il Governo italiano ha eccepito l’inapplicabilità dell’articolo 4 del Protocollo n. 4. La C.E.D.U. ha respinto tale eccezione facendo presente che tale articolo è applicabile addirittura in alto mare (si veda in proposito la sentenza Hirsi Jamaa e altri c. Italia, §§ 166-180) e conseguentemente esso può senz’altro essere applicato in caso di rifiuto di ammissione sul territorio nazionale, come nel caso di specie.

La C.E.D.U. ha quindi preso in esame molti rapporti redatti da terzi intervenienti e da altre fonti internazionali, che avevano denunciato episodi di rinvio indiscriminato verso la Grecia da parte della polizia di frontiera nei porti italiani che si affacciano sul mar Adriatico. La C.E.D.U. ha rilevato che le affermazioni del Governo italiano, circa la presenza sul suo territorio di un solo ricorrente, Reza Karimi, è stato contraddetto dallo stesso Governo greco, che ha invece dichiarato che altri tre ricorrenti si sarebbero imbarcati per arrivare in Italia e che sarebbero poi stati rinviati in Grecia.

All’eccezione dell’Italia, secondo cui la Grecia sarebbe stato il Paese competente ad esaminare le domande d’asilo, la C.E.D.U. ha rilevato che l’Italia avrebbe dovuto procedere ad un esame analitico ed individuale della situazione di ciascun ricorrente, anziché espellerli in blocco. Conseguentemente, la C.E.D.U. ha censurato il fatto che l’Italia abbia invocato il c.d. sistema Dublino per giustificare un respingimento indiscriminato e collettivo. La C.E.D.U. ha conseguentemente accertato la violazione dell’articolo 4 del Protocollo n. 4.

Quanto al rischio di rimpatrio verso l’Afganistan, la C.E.D.U. ha riconosciuto la responsabilità dell’Italia per aver respinto i ricorrenti verso la Grecia, un Paese dove sussiste un’assenza di accesso alla procedura d’asilo. Il Governo italiano avrebbe dovuto esaminare la situazione di ciascun ricorrente e valutare, prima del rinvio, in che modo le autorità greche applicano nella pratica la legislazione in materia di asilo. Per tali considerazioni la C.E.D.U. ha ritenuto che vi  è stata la violazione dell’articolo 3 della Convenzione.

 Antonella MASCIA